(A30) articolo del prof. Tarcisio Turco (Strenna dei Romanisti)

(A30) Canova a Parigi
del prof. Tarcisio Turco
pubblicato sulla “Strenna dei Romanisti” nel 1984

 

Il trattato di Tolentino (1897) spoglia lo Stato della Chiesa d’un centinaio di capolavori. Tra le sculture c’è il Discobolo, il Laocoonte e l’Apollo del Belvedere; tra le pitture, l’Assunzione della Vergine e la Trasfigurazionedi Raffaello, l’Incredulità di san Tommaso del Guercino, la Comunione di san Gerolamo del Domenichino e la Deposizionedel Caravaggio.
Pio VII nella Costituzione (1 ottobre 1802) diretta dal cardinale Giuseppe Doria-Pamphili, pro-camerlengo di Santa Romana Chiesa, dichiara che «lungi dall’illanguidirsi per questo, si è anzi maggiormente impegnata la paterna nostra sollecitudine a procurare tutti i mezzi, sia per impedire che alle perdite altre se ne aggiungano, sia per riparare, con il discoprimento di nuovi monumenti, alla mancanza di quelli che sonosi perduti». Dispone inoltre che il Legislatore imprenda lo studio di una serie di efficaci provvidenze per «conservare e accrescere a comune istruzione i monumenti dell’antichità e i bei modelli delle arti, ed animare insieme i benemeriti cultori delle medesime» ed elegge «l’incomparabile scultore Canova, emulo dei Fidia e dei Prassitele, come Raffaello lo fu degli Apelle e degli Zeusi» Ispettore Generale di tutte le Belle Arti.
Antonio Canova tenta di declinare l’incarico a motivo della sua «salute assai debole», il «metodo del suo vivere», la sua «fibra così facilmente irritabile, che al solo nome di pubblico impiego s’agita subito e si risente». Il papa insiste con energia, imitato dal cardinale Ercole Consalvi, Segretario di Stato, e Canova è costretto alla resa. Siamo all’anno 1815. Caduto Napoleone, sconfitta la Francia, il cardinal Consalvi affida a Canova la «recupera» dei capolavori trafugati allo Stato della Chiesa per impinguare i musei parigini. Canova è titubante: chiede di pensarci su, lascia correre qualche giorno. Infine, messo alle strette, finisce per convincersi della estrema importanza dell’incarico e della nobiltà dell’impresa.
«Eminenza» scrive al cardinal Consalvi, il 10 agosto 1815, «la importante e onorevole commissione, di cui vuole Sua Santità e Vostra Eminenza incaricarmi è opera molto difficile e superiore certamente alle facoltà limitate del mio ingegno. Ma, i titoli che legano l’animo mio al servizio di Vostra Eminenza sono tanti, e le ragioni da Lei esposte mi sembrano e sono così forti, che io non posso, né devo ricusare niuna prova, niun pericolo in cosa che sia di suo gradimento».
Canova prima di lasciare Roma, considerata la torbida situazione della Francia, fa testamento presso il notaio Gammesani in via Frattina e soltanto dopo avere ottenuto l’apostolica benedizione, si risolve a prendere con arme e bagaglio la via di Francia.
Giunto a Milano, il 18 agosto 1815, scrive al cardinal Consalvi: «Eminenza, il banchiere di cui sono diretto, uomo ponderatissimo, mi dice che si manca di nuove dirette da Lione; che il corriere che passava finora da Basilea per Parigi ha dovuto cambiare direzione, per non essere arrestato nel suo cammino; che tutta la Francia è turbata e sconvolta da vari partiti discordi; che le piazzeforti sono la maggior parte in mano de’ realisti, i quali non le vogliono cedere agli alleati; che in Parigi medesimo nascono tuttodì degli scandali, e de’ rumori; e il foglio di questa sera pare confermarlo poiché annuncia che si sono posti dei cannoni sulle piazze, alle Tuileries e sui ponti. Senza riportare ulteriori dettagli, queste cose unite insieme, e affermatemi da vari individui, che ho veduti e consultati, allarmano grandemente la mia tranquillità; né credo che Vostra Eminenza sia per darmi torto, se io procedo con rispetto e cautela in un viaggio che potria facilmente compromettere la mia vita. Io dunque partirò domani per Ginevra, dove mi arresterò qualche giorno, per pigliare lume e consiglio da persone amiche ch’ivi conosco; e se l’andare innanzi mi sarà concesso, volerò subito al mio destino; ma se pericoloso, difficile e imprudente in queste circostanze, io torno indietro, con dolore incredibile certamente, dopo aver già fatto tre quarti di viaggio».
Piuttosto pavido dunque, Canova; ma di riffe o di raffe il 28 agosto riesce a sbarcare a Parigi. Chiede subito udienza per consegnare le lettere credenziali ai rappresentanti delle Potenze alleate. La Prussia, dati i rapporti di buona amicizia esistenti tra il barone di Humboldt e il cardinal Consalvi, è favorevole alla richiesta della Santa Sede, così l’Inghilterra, mossa dalla speranza che, contestando la validità del trattato di Tolentino, si giunga ad annullare ogni altro atto del regime napoleonico.
Wellington, buttando sulla bilancia il peso della sua spada invitta, indirizza una «lettera aperta» a lord Castlereagh, un’esortazione rivolta all’Europa: «I francesi vorrebbero conservare questi capolavori dell’arte, non già perché Parigi sia il luogo più opportuno, ma solamente perché sono i trofei delle loro conquiste. Ma quegli stessi sentimenti che fanno desiderare al popolo francese di conservare i quadri e le statue di altre nazioni, devono far desiderare a queste, ora che la vittoria è a loro favorevole, di vedere restituiti questi oggetti ai loro legittimi proprietari; e i sovrani alleati devono favorire questo loro desiderio».
Canova potrebbe cantar vittoria, se non restasse, ferma, caparbia, incrollabile, l’opposizione della Russia. Passa allora a un attacco «frontale», indirizzando allo zar Alessandro una lettera dove, sotto il velo del rispetto e della blandizie, affiora la risolutezza: «Sire, ardisco dunque implorare una grazia che Alessandro il Macedone non negava agli artisti, ed è che io possa per la causa delle belle arti invocare ardentemente la protezione di Vostra Maestà. Magnanimo Alessandro, su voi l’Europa ha fisso gli attoniti sguardi… fate che Roma possa ricuperare, mercè la vostra generosa mediazione, quei monumenti che desidera e sui quali vorrebbe spargere lagrime di gratitudine all’augusto eroe che le avrà ridonate questi unici preziosi avanzi del suo antico splendore. Deh, vogliate che ogni giovane artista, studiando su questi monumenti, possa dire a se stesso: Mi sono stati restituiti dal grande Alessandro; ad esso sono debitore dei miei progressi, e quindi lo benedico».
Luigi XVIII riceve Canova; ma «parla corto, in francese» e delude ogni sua speranza. Poi continua il discorso in italiano, quasi a ristabilire un contatto umano con l’interlocutore, verso il quale nutre la massima stima, al punto di commissionargli un ritratto.
Canova si rende conto della difficoltà dell’incarico. Conscio delle sue limitate qualità diplomatiche, chiede al cardinal Consalvi l’invio d’un «consigliere», e miglior giovane e più capace, secondo lui, non potrebbe esserci di Alessandro d’Este, impiegato al Vaticano.
Anche l’Austria sembrava da principio ostile, o almeno in parte, alle domande della Santa Sede. Opponendosi alla restituzione delle opere d’arte sosteneva la validità del trattato di Tolentino, a fine di colorire con una pennellata di legalità la recente sua occupazione d’una porzione dello stato di Ferrara sancita nel congresso di Vienna. Poi anche l’Austria finisce per allinearsi con la Prussia e l’Inghilterra. Canova viene autorizzato finalmente a riprendere dal Reale Museo «statue e quadri e altri oggetti». Al suo primo incontro con monsieur Denon, il decrepito e arcigno direttore del Museo Reale, Canova finisce per uscir dai gangheri, alza la voce, agita le braccia, dice che quello non è il modo di trattare un ambasciatore. E monsieur Denon, ironicamente, risponde: «Ambassadeur? Vous voulez dire emballeur».
L’«imballatore Canova», sia pure scortato dal plotone di dragoni austriaci, riesce finalmente a recuperare le opere contese e scrive al Consalvi:
«Parigi, 10 ottobre 1815. Eminenza, ho già ripresi circa 40 pezzi di scultura e più di 30 quadri che sono guardati in una caserma austriaca, anzi, per somma grazia e speciale compiacenza del signor principe di Metternich, io mi sono affrettato di far mettere in pronto le casse delle statue principali e dei quadri, per unirne la spedizione. Io non ho tempo per allungarmi più oltre, mancandomi fino quel respirare; e sono parecchi dì che non mangio né dormo, né mio fratello né io, per far preparare le casse e ripigliare, con una furia senza esempio, quello che resta di nostro al museo. Purché io sia in tempo! Le pene, le angustie, li fastidii da me finora sofferti sono indescrivibili, né vi voleva meno di tutto il mio amore per l’arti e pel servizio di Sua Santità, onde sottoporvi a un carico tanto incompatibile col mio carattere».
Mentre il Santo Padre invia chirografi di ringraziamento, nonché doni e onorificenze a quanti hanno contribuito al successo dell’impresa, il convoglio muove alla volta di Roma. Sono 34 casse distribuite su 13 carri e, per clausola di contratto, alla Trasfigurazione e all’Apollo sono riservati due carri speciali. La cassa più preziosa, contrassegnata dal numero 2, contiene 6 tele arrotolate, tra cui la Madonna di Foligno di Raffaello, Cristo al sepolcro del Caravaggio e il martirio di San Pietro di Guido Reni. Il peso complessivo della nobile merce è di kg 48.961; il prezzo del trasporto ammonterà a franchi 50.919. Giunti al Moncenisio, il carro numero 1 sul quale è il Laocoonte slitta sul ghiaccio, la statua cade e subisce una lesione «alla parte inferiore laterale sinistra del basso ventre, avente una rottura della lunghezza di once 5», come clinicamente diagnostica il giorno seguente a Susa l’archeologo Saleri.
L’azione dell’«imballatore» Canova, secondo il parere di qualche criticuzzo non sarebbe stata abbastanza energica e risolutiva; ma noi, considerando gli interessi in gioco e le occulte manovre delle varie potenze, riteniamo che non era possibile ottenere di più. Anzi, nelle trattative ebbero molto peso le amicizie personali dello scultore e soprattutto la stima e l’ammirazione di cui godeva anche in Francia.
La Santa Sede si trova padrona di una cospicua pinacoteca. Resta il meno: trovarle una degna sede e Pio VII ordina di aprire una nuova galleria nell’appartamento Borgia. Questa pinacoteca nel corso d’un secolo o poco più, non trova pace. Dall’appartamento Borgia è trasferita all’appartamento di Gregorio XIII e poi all’appartamento di Pio V, per tornare un’altra volta all’appartamento di Gregorio XIII. Pio X la alloga in un fabbricato prospiciente il cortile del Belvedere. Finché, Pio XII, stanco di veder tagliare e adattare la pinacoteca sempre su locali preesistenti, le destina una sede definitiva nella zona dei giardini, lungo il Viale della Zitella, a un passo dall’atrio dei Quattro Cancelli. Le opere, da 44 che erano in origine, salgono a 463 e si arricchiscono ancora, sempre sotto Pio XII, d’una ventina di opere contemporanee.
Tornando a Canova, il 4 gennaio 1816 le opere sono a Roma. Il «Cracas», nel numero del 6 gennaio, dà la notizia in questi termini: «Giunsero in questa capitale diversi carri contenenti vari dei migliori nostri capi d’opera in pittura e scultura, che con trasporto di giubilo, e per il bene delle arti, ritornano ad associarsi a questi monumenti romani, vale a dire quel centro di riunione, ch’è il solo capace di formare gli artisti e di inspirar loro la sublimità dei concetti».
La notte del 3 gennaio 1816, precedendo di qualche ora l’arrivo del convoglio, giunge Canova, rimasto assente da Roma cinque mesi giusti. Il suo breve carteggio col cardinal Consalvi (14 lettere tra il 10 agosto 1815 e il 3 gennaio 1816) è sigillato da questo laconico biglietto: «Eminenza, arrivo in questo momento, e vado a letto stracco del viaggio; sarò da Vostra Eminenza domani mattina a giorno, per essere con Lei una mezz’ora liberamente. Rimango nella impazienza di rivederla, pieno del più profondo ossequio e tenera venerazione.
Di Vostra Eminenza, obbligatissimo, obbedientissimo, affezionatissimo servitore Antonio Canova».
Tarcisio Turco