1801, il Concordato, Parte VI

15 luglio 1801
IL CONCORDATO
PARTE VI
A questo punto, per l’ennesima volta, si rimette mano al testo, ma, come se non bastasse, il Cardinale questa volta riceve una ben più amara sorpresa proprio dai suoi collaboratori, il prelato Spina ed il teologo Caselli: essi si rifiutano di seguirlo e si dichiarano pronti alla firma.
Questa sì che è una sorpresa! Di fronte ad una cosa del genere, come minimo avrebbe dovuto dare le dimissioni da Segretario di Stato e da Cardinale e tornarsene tranquillo a Roma. Invece … il dovere soprattutto!
Io non dirò come io passassi quella dolorosa notte.
Ma non potrò tacere di quanto si accrescesse il mio dolore nella mattina al vedere entrare nella mia camera con imbarazzato e mesto viso il Prelato Spina e udirmi dire che il Teologo Padre Caselli era allora sortito dalla camera sua, dove si era condotto per dirgli che, avendo pensato tutta la notte alle conseguenze incalcolabili della rottura, le quali sarebbero state fatalissime alla Religione e dopo accadute sarebbero state irrimediabili, come provava l’esempio dell’lnghilterra, e vedendo che il Primo Console aveva dichiarato di essere inflessibile sul non ammettere cambiamenti nell’articolo controverso, egli era determinato per la sua parte ad acconsertirvi e a sottoscriverlo tale quale, non credendo leso il dogma e credendo che le circostanze delle quali non vi erano mai state le più imperiose, giustificassero la condiscendenza, che in quell’articolo il Papa userebbe, non essendovi proporzione fra la poca perdita, diceva egli, che si fa con quell’articolo, con la perdita immensa, che si farà con la rottura.
Il Prelato Spina aggiunse che, pensando così il Padre Caselli, che era assai più Teologo di lui, egli non aveva coraggio di farsi responsabile di conseguenze sì fatali alla Religione e che perciò si era determinato egli pure ad ammettere l’articolo e sottoscriverlo tal quale.
Il Cardinale, a questo punto rimaneva solo. Solo a titolo di pura cronaca, riporto che il teologo Caselli fu dichiarato dal Governo Francese Senatore dell’Impero ed Arcivescovo di Parigi.
Non potrei esprimere la impressione che in me fece questa loro dichiarazione e il vedermi così lasciato solo nella battaglia. Ma se ciò mi sorprese e mi addolorò al sommo, non però mi avvilì ne mi scosse dal mio proposito.
Dopo aver procurato inutilmente di persuadere l’uno e l’altro, vedendo che le mie ragioni non avevano presso di loro tanto peso da stare nella bilancia al pari delle conseguenze che li spaventavano, finii per dire che, non essendo io persuaso delle ragioni loro, non potevo arrendermi e che mi sarei battuto solo nel congresso, pregandoli però di riserbare soltanto al termine del medesimo la protesta della loro adesione all’articolo, se non riescendo di conciliare la cosa si fosse nella necessità di rompere, al che io, piuttosto che tradire ciò che nella mia opinione credevo mio dovere, nell’estremo caso, benche’ con vivo dolore, ero risolutissimo.
Essi lo promisero, anzi dissero che fino al termine, non avrebbero lasciato di appoggiare le mie ragioni, benchè non volessero poi persisterci fino al punto della rottura.
In un certo senso il Cardinale era riuscito quindi a convincerli. I tre si recano di nuovo a casa di Giuseppe Bonaparte, dove lavorano altre dodici ore di seguito, da mezzogiorno a mezzanotte.
Ma, perché il Cardinale rischiava la rottura con il Governo Francese per un solo articolo? Perché il teologo Caselli riteneva non importante questo articolo, mentre il Cardinale sì?
Io non mi arrischio a spiegarlo, ma lui lo fà e anche bene! Non c’è niente da dire, il Cardinale è un “Grande”, ma pochi nella Santa Sede lo capirono, a parte Pio VII.
Almeno 11 ore furono impiegate nella discussione di quel fatale articolo, per ben comprendere la cosa, è indispensabile di entrare (su questo solo punto) nell’intrinseco dell’affare.
Mi studierò di farlo con la maggiore chiarezza possibile nella brevità storica, la quale non soffre lo sviluppo di una teologica discussione.
Le due cose che si erano volute in Roma, come i due cardini del Concordato e come due condizioni sine quibus non, come suol dirsi, erano la libertà del culto cattolico e la publicità del suo esercizio.
Considerando più lo stato, da cui si veniva, che quello, a cui si andava incontro (e a dir vero era ancor troppo presto per poter imaginare quel tolerantismo di ogni culto e perciò anche del cattolico, che si vide poi in seguito), si pensava in Roma che fosse di necessità indispensabile di stipulare espressamente quelle due essenziali condizioni in favore della Religione, le quali valevano e giustificavano tutti gli altri sacrifizii che si esigevano dalla Chiesa e dalla S, Sede.
Dirò ancora che, anche nel supposto che si fosse preveduto il tolerantismo accennato di sopra, ciò non ostante si sarebbe creduto in Roma indispensabile lo stipulare quelle due condizioni, giacchè la esperienza aveva già dimostrato da gran tempo che la tanto vantata toleranza in atto pratico favoriva tutte le sétte, eccettuata la vera Chiesa, la quale nella toleranza universale di ogni altro culto si era voluta dal Secolare Governo assoggettare alle sue leggi e sotto il pretesto del Vescovado esteriore del Sovrano Cattolico, della sua qualità di Protettore, di Avvocato, si voleva schiava e dipendente dal suo assoluto dominio.
Se ciò aveva preso già tanto piede prima della rivoluzione Francese, quanto ne fanno fede le riprovate leggi di varii Stati e quelle specialmente dell’Imperadore Giuseppe II, è chiaro che doveva ciò temersi assai più dopo una rivoluzione, in cui la irreligione, la empietà, il disprezzo della gerarchia ecclesiastica e specialmente del suo Capo, la precaria, e dirò anche servile, esistenza delli ecclesiastici per lo spoglio dei suoi beni fondi, facilitavano tanto di più la oppressione della libertà del culto e dei suoi Ministri.
Quanto poi alla publicità del suo esercizio, le medesime cagioni e la aggiunta di quella dell’odio e furore contro la vera Religione (di cui ciò è partaggio e caratteristica) dell’increduli, dei settarii di ogni specie, dei libertini e degli Ebrei stessi, pareggiati tutti, anzi favoriti, nell’esercizio dei pretesi diritti di cittadinanza, di publici funzionarii, di magistrature, facevano considerare per indispensabile rassicurarla con un patto formale e solenne.
Per questi motivi adunque si era voluto espressamente in Roma che la libertà e la publicità del culto cattolico fossero pattuite nel Concordato e tanto più si credè ciò necessario, quanto che i sforzi per far dichiarare la Religione Cattolica Religione dello Stato erano tutti riesciti vani, benchè fossero stati vivissimi, opponendosi dal Governo, che la base fondamentale della Costituzione, cioè la eguaglianza dei diritti, delle persone, dei culti, di tutte insomma le cose, vi si opponevano tanto decisamente, che deve stimarsi una grande vittoria l’avere poi, dirò quasi, più carpita, che ottenuta, nel Concordato ch’io feci, la dichiarazione che almeno la Religione Cattolica era IN FRANCIA la Religione della grande maggiorità dei cittadini.
Tutto ciò premesso per dimostrare quanto fortemente e per quali motivi si voleva in Roma la espressa stipulazione nel Concordato della libertà e pubblicità del culto, dirò che nelle trattative non incontrai difficoltà invincibili (benchè ne incontrassi molte) quanto al pattuire la libertà, forse perché il Governo pensò fin d’allora a poi burlarsi della apparenza e semplice suono di quella parola che si trovò necessitato a inserire nel Concordato annientandola affatto col mezzo di quelle Leggi Organiche, delle quali né durante la trattativa né per molto tempo dopo si udì mai far menzione e delle quali avrò luogo di meglio parlare più sotto. Ma quanto alla pubblicità del culto, le opposizioni furono infinite, inesprimibili, invincibili, per prometterla indefinita.
Il grande argomento, che sotto mille forme e mille colori, e tutti vivi e forti e (bisogna dire il vero) in parte anche sussistenti e veri, era la impossibilità la più assoluta di potersi dappertutto esercitare pubblicamente tutte le pratiche del culto, specialmente nelle città e paesi dove il numero dei cattolici era minore di quello dei settari ed altri contrari al Cattolicesimo, i quali si sarebbero permesso d’insultare, frastornare, impedire le processioni pubbliche, le funzioni al di fuori delle chiese, le pratiche esteriori, al che naturalmente opponendosi i cattolici, la pubblica tranquillità ne sarebbe compromessa, mancando, specialmente nelle effervescenze dei primi anni, la forza ed anche la volontà del Governo di stare ogni giorno con le armi alla mano contro i propri cittadini, la forza e potere dei quali la recente rivoluzione aveva fatto conoscere quale e quanta fosse.
Diceva quindi il Governo che gli era impossibile di stipulare UNA PUBBLICITÀ di culto indefinita e perciò apponendovi una limitazione che sosteneva essere assolutamente necessaria e indispensabile, formò il più volte accennato e tanto contrastato articolo in questi termini, cioè Le Culte serà public, en se conformant toute fois aux reglements de Police.
Ma erano troppo note le pretensioni, poste fuori dai Regi Pubblicisti da non pochi anni indietro, sul preteso dritto del sovrano sul regolamento del culto esteriore (a cui in pratica davasi poi tanta estensione, che quasi nulla e forse affatto nulla rimaneva alla Chiesa di esente dalla giurisdizione laicale), per non dovere sommamente apprendere quell’indefinito e tanto ampio en se conformant, e doveva fondatissimamente temersi che in forza di un tal patto, sottoscritto dalla S. Sede, la polizia, o sia il Governo, si mischierebbe in tutto ed eserciterebbe in tutto il suo potere e volere, da cui per effetto del pattuito en se conformant la Chiesa non potrebbe mai reclamare.
Perciò io mi era invincibilmente ricusato alla sottoscrizione di sì fatto articolo, il quale nel tempo stesso che assoggettava la Chiesa di fatto, offendeva anche la massima, subito che era convenuto.
Può la Chiesa talora, come sa ognuno, o per prudenza o per carità o per impotenza o per altre giuste ragioni tollerare in fatto la violazione delle sue leggi e diritti, ma non può autorizzarla mai con una convenzione.
Nel ricusarmi per tali giustissimi riflessi a quella indefinita e tanto ampia limitazione della pubblicità del culto, non meno offensiva della massima, come si è detto, che dannosa in fatto per la sua stessa ampiezza, io sentendo al tempo stesso la forza di alcuna delle ragioni (se non di tutte) che muovevano il Governo a volerla in quella forma, avevo proposto ed offerto vari compensi da prendersi dal Papa stesso, di concerto col Governo, per i primi anni specialmente, nei quali la rivoluzionaria effervescenza rimaneva ancora sì viva, come per esempio una Bolla del Papa al Clero Cattolico della Francia per astenersi nei primi tempi da certe funzioni pubbliche dove fosse maggiore e intollerante il numero dei settari, ovvero un articolo addizionale con limitazione di tempo e dichiarazione delle cose da potersi impedire dalla Polizia SOLTANTO per la ragione anzidetta, ma questi ed altri compensi consimili erano stati rigettati dal Governo sempre e insuperabilmente.
Quando il Governo si trovava convinto dalle ragioni da me prodotte per non ammettere così indefinita e così AMPIA la sua limitazione nell’articolo della pubblicità, mi diceva, ebbene, se il Papa non può ammettere tale limitazione, così indefinita e ampia, si tralasci affatto l’articolo e non si parli di pubblicità di culto né punto né poco.
E se io non avessi avuto gli ordini i più espressi per la inserzione e menzione espressa di quell’articolo, come ho detto di sopra, io confesso il vero che quel partito avrei preso, cioè di omettere l’ articolo intieramente, persuaso che la natura stessa della cosa avrebbe fatto avere col volgere del tempo al culto cattolico, come alli altri culti, almeno quel tanto di pubblicità, che dalla limitazione del conformarsi ai regolamenti di polizia poteva ripromettersi, senza bisogno di stipularla con pericolo di attentare alla massima.
Ma gli ordini che io avevo di non omettere quell’articolo erano troppo positivi, perché io potessi violarli. Io dimandai di potere inviare un corriere a Roma per ottenere o la facoltà di lasciare fuori affatto l’articolo o di accomodare la cosa in qualche modo, ma costantemente mi fu negato il passaporto.
Qui la situazione è un po’ diversa. Ma, allora, se questo valeva per sé, doveva valere anche per Caselli e Spina, i quali a questo punto non avevano il diritto di contestare ed avrebbero dovuto firmare senza il permesso di Roma. Si presume che il Cardinale lo abbia fatto loro presente. Perché allora erano rimasti fermi nella loro decisione di voler firmare? Non è forse che sia proprio il Cardinale a cercare, in un certo senso, una giustificazione morale alla propria intransigenza? Non lo sapremo mai.
In tale situazione io mi era dunque ricusato, anche al costo di rompere, come si è narrato di sopra, alla ammissione di quella limitazione nel precedente congresso, in cui era stata rimessa in campo per volontà del Primo Console, dopo che si era smontato quando si era venuti d’accordo in tutto per il mezzo dell’Abate Bernier, se pure però ciò fu vero e non piuttosto fu un premeditato artificio, contando che la sorpresa e la circostanza dell’annunzio del Monitore della conclusione del Concordato e quello della sottoscrizione da annunziarsi nella occasione del gran pranzo della Festa, avrebbero scosso la mia costanza.
Tale era dunque la situazione della cosa quando si incominciò il secondo congresso, ildi cui esito doveva decidere della sorte della Religione in tanti Stati e portare tante conseguenze.
Si trattava dunque di trovare qualche cosa, che, o tolta o aggiunta a quell’articolo, lo rendesse ammissibile da ambe le parti. E non posso dire con sicurezza se i Commissionati Francesi avessero l’ordine di prestarsi a ciò ovvero di persistere nell’esigere la ammissione di quell’articolo pura e semplice, ma se io debbo giudicarne da ciò che disse il Primo Console nel permettere il nuovo congresso, come ho riferito di sopra, e dalla resistenza ostinatissima dei suddetti Deputati al prestarsi a qualsiasi variazione, io debbo credere che avessero l’ordine di non prestarvisi affatto.
Checchè sia di ciò, si diede principio alla nuova discussione, che, dallo spazio di 11 ore che occupò, può concepirsi quanto fosse ardua e grave e quanto impegnata.
Io non riferirò tutto quello che fu a vicenda proposto ed escluso, essendo ciò inutile. Io dirò solamente quello che dopo molta discussione condusse al termine dell’affare.
Alla fermissima mia resistenza e sempre ripetute proteste e dichiarazioni che mai avrei sottoscritto, anche a costo delle più temibili conseguenze, l’articolo in questione in quel modo e termini che si voleva dal Governo Francese, perché non volevo autorizzare con un espresso consenso della S. Sede la servitù della Chiesa nel doversi conformare ai regolamenti di Polizia, si ripeteva sempre dai Commissionati del Governo che io davo una troppo ampia interpretazione a quelle parole, quasi che portassero seco una totale dipendenza della Chiesa dalla potestà laica.
Essi dicevano che ciò era falso del tutto e che il Governo non aveva punto questa pretensione. Il non comprendersi da me il vero significato della parola Polizia era, dicevan essi, la causa del mio errore e della inopportuna mia resistenza.
La Polizia, dicevano, non è veramente il Governo in se stesso, ma è quella sola parte dell’esercizio della potestà governativa, che è relativa al mantenimento della pubblica tranquillità. Questa tranquillità pubblica, aggiungevano, è voluta egualmente dalla Chiesa, che dalla Potestà Secolare.
Il turbamento della pubblica tranquillità compromette la salute del popolo, la quale, come suol dirsi, è la suprema legge. Il procurarla è una necessità e la necessità non ha legge che le si opponga. La tranquillità pubblica sarebbe certissimamente compromessa nella Francia, se dopo la libertà, le novità, la eguaglianza dei dritti, introdotte dalla rivoluzione e dopo i grandi cambiamenti accaduti così nelle idee che nelle usanze e costumi, ogni sorta di pratica pubblica del culto si lasciasse eseguire in ogni luogo.
In alcuni luoghi potrà ogni pratica qualunque del culto esteriore eseguirsi senza alcun rischio, ma in altri luoghi e in quelli specialmente dove i seguaci del culto cattolico fossero nel minor numero, l’esercizio di alcune pratiche ecciterebbe certissimamente insulti, risse, guerre intestine, spargimento di sangue e la pubblica tranquillità sarebbe sicuramente compromessa.
Non vi ha che il solo Governo, che possa conoscere in quali luoghi e in quali circostanze possa senza rischio o con rischio aver luogo la pubblicità del culto, l’esercizio cioè delle sue pratiche e cerimonie al di fuori delle chiese, giacché dentro le medesime può farsi liberissimamente tutto quello che si vuole.
Quindi conchiudevano che il Papa pretendeva troppo, anzi pretendeva una cosa cattiva e ingiusta e aliena dal suo Ministero di pace, allorché pretendeva, specialmente nei primi momenti, quella indefinita libertà di culto che non poteva esser propria che dei tempi più pacifici e di paesi, dove non fosse stata una rivoluzione sì grande di idee e di usi, e che non poteva aver luogo nelle attuali circostanze della Francia, senza che avessero luogo insieme con essa i più terribili torbidi e la effusione del sangue ancora.
Ma a tutte queste cose io rispondeva che, sebbene fossero in molta parte vere, se non in tutto, l’articolo però, così com’era concepito, non presentava né una limitazione di oggetti né una limitazione di tempo e perciò nella tanto grande estensione di quella limitazione che si voleva porre alla pubblicità del culto per le ragioni addotte, si veniva a stabilire una limitazione di sì cattiva natura e di tanta importanza e tanto danno, che io non potevo assolutamente ammettere quella limitazione, senza che una limitazione, dirò così, della limitazione stessa lo rendesse innocuo e giusto e per conseguenza ammissibile.
Non si voleva però dal Governo sentir parlare di limitazione della sua limitazione, e perciò non si faceva viaggio, come suol dirsi.
E qui, il Cardinale dice di aver “calato l’asso”, con il quale egli dice di aver messo in difficoltà i “Commissionati” del Governo.
Ma finalmente un dilemma vinse i Commissionati del Governo, non avendo saputo quale replica dare.
Io dissi così: o si è di buona fede nel dire che la ragione che costringe il Governo a volere nella pubblicità del culto la limitazione di conformarsi alli regolamenti di Polizia è la legge imperiosa della pubblica tranquillità, e in tal caso non può né deve il Governo avere difficoltà che questa stessa cosa si esprima nell’articolo; o non vuole il Governo che ci si esprima, e in tal caso non è di buona fede e dimostra con questo stesso che vuole quella limitazione per assoggettare la Chiesa al suo volere.
Stretti da questo dilemma, i Commissionati risposero che il Governo era di buonissima fede né pretendeva di assoggettarsi la Chiesa, ma di assicurare solamente la tranquillità pubblica: che non era però necessario di dir ciò con queste parole medesime, perché si trovava già spiegato nella stessa parola di Polizia, che non significa altro, che regolamenti diretti al mantenimento della pubblica tranquillità.
Risposi che ciò non era vero, almeno in tutte le lingue; ma concedendo ancora che lo fosse, qual difficoltà è questa mai, aggiunsi, di spiegarlo con maggior chiarezza, per togliere di mezzo ogni sinistra interpretazione e dannosa alla libertà della Chiesa?
Se si è di buona fede, non si deve avere questa difficoltà: se si ha, non si è dunque di buona fede.
Trovandosi sempre più stretti da questo stesso dilemma, né potendo declinarlo, dissero, ma quale utile ella trova in questa ripetizione? (perché sostenevano sempre che la parola Polizia già lo diceva abbastanza).
Ci trovo un grandissimo utile, io risposi, perché, limitando chiaramente e con parole espresse al solo oggetto della tranquillità pubblica il doversi conformare la pubblicità del culto ai regolamenti di Polizia, rimane da questo stesso escluso tutto il resto, giacchè inclusio unius est exclusio alterius, e non si assoggetta la Chiesa ai voleri della potestà laica né si attacca la massima, non altro sottoscrivendosi in tal caso dal Papa, che ciò che non può non essere, perché necessitas non habet legem.”
La forza di queste ragioni e la insuperabile risolutezza che in me videro di non ammettere la limitazione voluta dal Governo, se dal Governo non si ammetteva la limitazione da me proposta della sua stessa limitazione, fecero sì, che finalmente ci convennero.
Insomma tutto ciò non aveva niente a che fare con la teologia! Ecco perché lo Spina ed il Caselli non riuscivano a capire il Consalvi ed erano pronti a sottoscrivere il Concordato così come Napoleone lo voleva.
Solo contro tutti il Cardinale aveva raggiunto il suo scopo. Ma ora, come convincere Napoleone e, soprattutto, come salvargli la faccia, dato che egli di fronte a tanti testimoni aveva asserito che non avrebbe mai acconsentito a cambiare quell’articolo?
Direi che anche Napoleone se l’è cavata abbastanza bene, dato che aveva previsto in anticipo tutto questo, dando le opportune direttive al fratello. Insomma il fratello in questo caso avrebbe sì dovuto firmare, ma facendo in modo che si sapesse che lo aveva fatto contro la volontà di Napoleone ed a sua insaputa.
E così fu! Napoleone salva la faccia, il Cardinale ottiene, per ora, ciò che voleva e lo Spina ed il Caselli tirarono un sospiro di sollievo, non dovendosi più scontrare con il Cardinale e, soprattutto, con Roma.
Vediamo, a questo punto, come andò la sceneggiata architettata da Napoleone e dal fratello Giuseppe.
Protestarono però che non si ripromettevano che ci convenisse il Primo Console, il quale aveva vietato che a quell’articolo nulla si aggiungesse, nulla se ne levasse.
Io dissi che potevano fargliene la relazione e differirsi la sottoscrizione all’indomani, qualora egli ci fosse convenuto, ma presa allora la parola, il di lui fratello disse che egli lo conosceva troppo per essere sicurissimo che se si tornava da lui per esplorarlo, si ricuserebbe all’aggiunta da me fatta: che l’unico modo per fargliela approvare (benché ripetesse che non se ne riprometteva) era di portargli la cosa fatta: che egli, [che] desiderando il bene e perciò desiderando la conclusione del Concordato, si credeva in dovere di dire lealmente quello che sentiva, e perciò concluse che era meglio sottoscrivere in quella sera stessa, giacché se i1 Primo Console non avesse poi voluto convenirci, poteva farlo col negare la ratifica e che quanto allo sdegno che potesse concepirne, egli credeva di potercisi esporre con qualche minor pericolo, come fratello, e che prenderebbe sopra di se la cosa.
Questa dichiarazione assicurò gli altri due, che non si arrischiavano contro gli ordini che dicevano di avere ricevuti, e così fu deciso di sottoscrivere sul fatto.
I due della mia parte, i quali erano disposti ad ammettere l’articolo com’era, furono contenti sopra ogni credere della emenda e nuova limitazione del medesimo, che non avevano sperato che fosse per accettarsi dall’altra parte.
Intanto, in attesa della risposta, il nostro Cardinale non è che fosse tanto tranquillo, anche se si era permesso di dire a Giuseppe che “nel caso di insuperabile rifiuto, gli dicesse pure fermamente che l’articolo puro e semplice non sarebbe mai da me sottoscritto e che a costo di qualunque conseguenza io sarei partito.
Del resto egli lo ammette tranquillamente.
Non è difficile l’immaginare con quale ansietà si aspettò nel dì seguente una notizia, che decideva di tante conseguenze.
Ed ecco la sceneggiata di Napoleone:
Si seppe finalmente dal fratello del Primo Console, che questo era stato malissimo soddisfatto dell’articolo emendato e che non voleva approvarlo in conto alcuno, ma che alla fine dopo infinito stento e preghiere del fratello e dopo le più serie riflessioni che questo fece fargli sulle conseguenze della rottura, egli dopo non breve meditazione e silenzio (che i posteriori fatti hanno poi spiegato abbastanza) vi acconsentì e ordinò che ciò mi si rendesse noto.
Fu grande festa a Parigi per la firma del Concordato.
Appena sparsasi la notizia per Parigi della sottoscrizione del Concordato, ne fu universale la gioia, eccettuati i nemici della Religione e il Clero Costituzionale.
I ministri esteri, e più specialmente il Conte di Cobenzel, vennero a farmene le loro felicitàzioni e ringraziamenti ancora, considerando un tal fatto come anche loro proprio, per il grande influsso che aveva nella conservazione e tranquillità dei loro Stati.
Napoleone ed il Cardinale si incontrano di nuovo.
Domandai di vedere in unione coi miei compagni il Primo Console per praticare verso di lui un rispettoso officio dopo la sottoscrizione.
Ci fu accordata la udienza per il dì seguente. Ci trovammo anche i tre che avevano sottoscritto per parte del Governo.
All’inizio l’udienza fu molto cordiale.
L’accoglienza fu cortese. Nelle reciproche dichiarazioni di compiacenza che la conclusione del Concordato portasse il ristabilimento della Religione nella Francia e della buona armonia fra il di lei Governo e la S. Sede, credei di non dover tralasciare di far rimarcare che …
Ma poi … terminò di nuovo in modo “burrascoso”, come precisa il Cardinale, perché Napoleone ci proverà ancora ad arrogarsi la nomina dei Vescovi, ed il Consalvi continuerà a ribattere colpo su colpo, provocando di nuovo un forte risentimento personale da parte del Primo Console nei suoi confronti.
E pensare che quel giorno Napoleone era di buon umore e, come ci racconta l’Artaud, gli era venuto da ridere nel vedere il Cardinale:
Nel giorno stabilito per la pubblica udienza il Cardinale Consalvi si reca alla Tuileries, tenendo in mano la copia del Trattato. Sua Eminenza, vestito della sagra porpora, s’inoltrava con dignità, fissando modestamente gli occhi sul primo Console.
All’improvviso, la fisionomia del primo Console, da grave ed austera ch’era dapprima, si rasserena e appare una convulsione di riso sul volto di lui, che al Cardinale non isfugge.
«Ch’è mai, signore, dice egli alla persona che gli era più vicina, debbo inoltrarmi?»
«Andate, andate, gli risponde, non è per voi …» «Ah! Poiché non è per me, soggiunge il Cardinale, io continuerò …».
Egli s’inoltrò solo: la fisionomia del Primo Console riprese la sua maestà e ricevette dalle mani del Cardinale quell’immortal Trattato, ch’è una delle più luminose e delle più solide glorie del Concordato.
Non fu esattamente così! Come tutti sappiamo, le LEGGI ORGANICHE, emanate da Napoleone con la stessa data del Concordato, andarono a vanificare il Concordato stesso (A20), ma questa non è materia del presente scritto.