2000, La Duchessa di Devonshire, di Bianca Riccio

LA DUCHESSA DI DEVONSHIRE
di BIANCA RICCIO
 
  In un articolo, uscito recentemente sul Messaggero, avente per oggetto la pittrice Angelica Kauffmann (1), Bianca Riccio così scrive sulla Duchessa di Devonshire (2) ed il Cardinal Consalvi:

La Kauffmann fa il ritratto al Conte di Bristol, stravagante e onnivoro collezionista di antichità, e a sua figlia, la bellissima Elisabeth Hervey Foster. Elisabeth diventerà non solo la seconda moglie del quinto Duca di Devonshire, una delle fortune più cospicue d’Inghilterra, ma anche, rimasta vedova, l’amica del Cardinale Consalvi, Segretario di Stato di Pio VII, e la mecenate degli scavi della Colonna di Foca al Foro romano. Ma prima della “conveniente sistemazione Consalvi” e vivente ancora la prima Duchessa, la celebre Georgiana Spencer, era stata il terzo lato del “ménage a trois” più discusso d’Europa. Quello del Duca, della sua legittima consorte, e di lei stessa amata da entrambi. L’attività principale del gruppetto in questione era quella di mettere al mondo figli illegittimi nei punti più impervi d’Europa e d’Italia.”
In un altro saggio, Bianca Riccio ci fa una breve storia della colonia inglese che nel XIX secolo viveva a Roma. In questo articolo la scrittrice ci da altre informazioni sulla Duchessa di Devonshire ed il Cardinale.
“Tutti ggli inglesi de Piazza de Spagna”: così Gioacchino Belli iniziava, nella prima metà dell’Ottocento, un suo celebre sonetto (Er Miserere de la Settimana Santa, in I Sonetti 1952, III, p. 2436). E in realtà fino al 1870, fino al tramonto dello Stato Pontificio, il quartiere di Roma che si estende ai piedi di Trinità dei Monti fu invaso dai turisti britannici. Tutto era inglese in quelle strade, persino le insegne dei negozi. E nei dintorni, lungo le vie del Tridente, il Corso, il Babuino e Ripetta con le loro piccole traverse, si trovavano gli studi degli artisti.
Da Canova, che lavorava all’angolo tra via Frezza e via delle Colonnette, a John Gibson, il suo allievo inglese, sistemato in via della Fontanella, ad Adamo Tadolini, in via del Babuino, a Cincinnato Baruzzi e Rinaldo Rinaldi.
Per gli scultori il quartiere aveva un vantaggio non da poco: era situato a pochi passi dal Porto di Ripetta dove arrivavano via mare i marmi provenienti dalle Apuane. Gli ateliers degli scultori costituivano una grande attrattiva per gli inglesi, per i quali era un obbligo sociale visitarli. A volte anche di notte alla luce delle torce, come racconta M.me de Staël in ‘Corinne ou de l’Italie’.
In quelle botteghe si incontravano principi della Chiesa e sovrani, diplomatici e poeti. Era di moda allora acquistare sculture ‘moderne’, come nel Settecento si collezionavano marmi antichi.
La più ricca testimonianza di questo culto ottocentesco per le opere create a Roma è visibile tuttora in Inghilterra, nella campagna del Derbyshire, a Chatsworth. Qui il VI duca William George, scapolo e ultimo discendente del ramo primogenito dei Cavendish, marchese di Hartington, detto ‘Hart’, fece costruire dal suo architetto Wyatt una galleria per ospitarvi la collezione di sculture ‘moderne’, commissionate o comperate in gran parte a Roma tra il 1819 e il 1846.
Il Duca che disponeva di un’ingente ricchezza, era un collezionista nato. Raccoglieva le cose più diverse, piante, libri antichi, spartiti musicali, tappeti. Ma amava soprattutto i marmi. Una passione che gli aveva trasmesso la matrigna, seconda moglie del padre, Elisabeth Hervey, che risiedeva abitualmente a Roma dal 1815 dove aveva stretto un vincolo di tenera amicizia con il Cardinale Ercole Consalvi, onnipotente segretario di stato di Pio VII.
Fu con lei che ‘Hart’, quando arrivò a Roma per la prima volta nel 1819, prese a visitare gli ateliers degli artisti e ad acquistarne le opere. Prima fra tutte il magnifico gruppo di Canova, ‘l’Endimione dormiente’, che la duchessa descrisse con entusiasmo in una lettera: ‘Vive, respira, è vita, giovinezza e bellezza, eppure non ti guarda e non si sveglia. Non è Apollo, ma la sua forma è di tale bellezza e gusto che io penso sia veramente la più perfetta tra tutte le opere dell’artista’ (in Chapman 2002, p. 248).
Il Duca fu talmente affascinato dalla’arte di Canova che nel giro di pochi anni, dal 1819 al 1824, acquistò altre cinque sculture canoviane: due ritratti di Letizia Bonaparte, la testa della Laura del Petrarca, una Ebe e un busto di Napoleone, che ricomperò dalla sua amica Lady Abercorn, chiamata a Roma ‘acqua infelice’, perché ogni volta che entrava nello studio di Canova, presa da commozione, piangeva.
Tra gli allievi dello scultore il Duca si assicurò quanto c’era di meglio. Arrivarono così a Chatsworth il ‘Discobolo’ di Mattheus Kessels, il ‘gruppo di Marte e Cupido’ di John Gibson, il ‘Ganimede’ di Adamo Tadolini, il ‘busto di Baccante’ di Joseph Gott, quello analogo di Rinaldo Rinaldi, i rilievi del ‘Giorno e della Notte’ di Bertel Thorvaldsen e il suo gruppo di ‘Achille e Briseide’, la ‘Filatrice’ di Rusolph Schadow, la ‘Venere e Cupido’ di Pietro Tenerani, cui si aggiunse il Busto di Pio IX, il gruppo di ‘Latona, Apollo e Diana fanciulli’ di Francesco Pozzi e infine i due Leoni, copie di quelli del Monumento Rezzonico di Canova, uno di Francesco Tenaglia, l’altro di Carlo Rinaldi.
Nel 1819 Gasparo Gabrielli, pittore e mercante d’arte, fiduciario del duca, scrisse di avere inviato in Inghilterra venti casse di opere d’arte. La collezione del duca di Devonshire a Chatsworth è oggi la più importante testimonianza dell’arte romana nell’Ottocento.
La città, negli anni tra il ritorno di Pio VII nel 1814 e la sua morte nel 1823, conobbe un periodo di grande splendore dovuto soprattutto alla politica illuminata del Cardinale Ercole Consalvi, che, nell’intento di restaurare il prestigio del papato dopo le umiliazioni subite ad opera dei francesi, fece quanto poteva per promuovere lo sviluppo dell’arte. Roma tornò ad essere così quello che era stata nel Settecento, il centro dell’arte in Europa, meta obbligata per artisti, scrittori e poeti.
Ma se Consalvi fu tollerante nei confronti di tutti, tanto che a Roma trovarono rifugio perfino i suoi antichi nemici, i Bonaparte, la sua vera predilezione, maturata già negli anni giovanili, fu per gli inglesi.
Era stato educato infatti nel collegio ecclesiastico per i giovani aristocratici fondato dal Cardinale di York, vescovo di Frascati, Henry Benedict Stuart, e al Congresso di Vienna aveva avuto negli inglesi i suoi migliori alleati.
Con il loro aiuto aveva ottenuto di inviare a Parigi Canova per recuperarvi le opere d’arte trafugate dai Francesi. L’idea di affidare a un’artista, e non a un politico, la delicata missione, era stata di Consalvi, ma decisivo per la sua realizzazione risultò il sostegno di William Richard Hamilton, archeologo, diplomatico e sottosegretario di stato di Lord Castlereagh, e quello dell’idolatrato Duca di Wellington.
La flotta britannica trasportò le opere d’arte da Antwerp a Civitavecchia e il reggente, futuro Giorgio IV, provvide alle spese di imballaggio.
Da Parigi Canova si recò poi a Londra, dove il reggente gli regalò una serie di calchi in gesso dei marmi di Elgin, destinati ai Musei Vaticani.
Artefice di tutta l’operazione era stata, dietro le quinte, la Duchessa di Devonshire; anche lei discendente da parte di madre degli Stuart. Stendhal, che detestava gli inglesi, nelle sue ‘Voyage en Italie’ scrive: ‘Di tutti gli inglesi che infestano Roma gli unici tollerati dalla cittadinanza sono il duca e la duchessa di Devonshire’ (Stendhal 1996, p. 1215).
Certamente il duca e la duchessa furono dei veri mecenati, anche grazie all’affettuoso legame di lei con Consalvi. Il Duca se ne rese conto, appena giunto a Roma, tant’è vero che in una lettera alla sorella, Georgiana Morphet, poi contessa di Carlisle, scrisse: ‘Sua Grazia è presa interamente dalla Bella Arte e dal Bello Segretario di Stato’ (Lees-Milne 1991, p. 137).
Ma il Duca a Roma non si occupò solo di belle arti. Sappiamo che in una udienza con il Pontefice e con Consalvi discusse i problemi dell’Irlanda cattolica. E uno dei primi provvedimenti del Cardinale fu il ripristino del Collegio inglese con un nuovo rettore, un prete secolare cattolico, Franco Gradwell. Lo stesso Consalvi ne assunse la carica di ‘cardinale protettore’.
I viaggiatori inglesi che affluivano a Roma a quel tempo appartenevano a un ceto diverso dai loro predecessori settecenteschi. La stessa Duchessa Elisabeth parlò di loro come degli iniziatori di una ‘nuova scuola’. Non erano più i capricciosi ‘milordi’ che correvano su e giù per la penisola nelle loro lussuose carrozze, con un corteo di servitori e segretari al seguito, ma gente nuova, ricca e desiderosa di rinnovare i fasti del passato aristocratico. Innanzitutto collezionando opere d’arte.
La passione per i marmi antichi in Inghilterra risaliva addirittura al Seicento, quando Thomas Howard, XIV conte di Arundel e sua moglie Aletheia, devoti cattolici, accompagnati e consigliati dal loro amico Inigo Jones, avevano messo insieme la più splendita collezione di marmi dell’epoca, nota come ‘Marmora Arundeliana’. Quei pezzi subirono in seguito una tragica sorte perché Arundel House, dove erano conservati, fu rasa al suolo da Cromwell, e forse qualche scultura sarà ancora sepolta sotto lo Strand di Londra.
Quelli ‘moderni’ invece, messi insieme nell’Ottocento, sono arrivati integri fino ad oggi. E non solo le sculture dei Devonshire, ma anche altre, come la raccolta del duca di Bedford, della quale facevano parte le ‘Tre Grazie’ del Canova, recentemente acquistate congiuntamente dalla National Gallery di Scozia e dal Victoria and Alhest Museum di Londra.
La tendenza ad acquistare marmi ‘moderni’, già diffusa tra gli inglesi a Roma, fu ulteriormente incrementata nel 1820 dall’editto del cardinale Pacca che, vietando l’esportazione dei materiali di scavo, limitò il mercato alla produzione contemporanea.
Ma gli inglesi che nell’Ottocento frequentarono Roma non furono semplici turisti. Viaggiavano, acquistavano, frequentavano artisti e prelati, e influivano anche sulla vita cittadina. Con le loro iniziative contribuirono notevolmente a trasformarne la cultura.
Lady Blessington, nel suo ‘The Idler in Italy’, edito da Galignani a Parigi nel 1839, raccontando una passeggiata alla Vigna palatina, parla di Charles Mills, proprietario di immense piantagioni di zucchero nelle Indie Occidentali, che vi aveva acquistato la Villa Mattei Spada e l’aveva trasformata in una magione neogotica a imitazione della celebre Strawberry Hill di Horace Walpole. Mills divideva la villa con William Gell, archeologo, topografo, gentiluomo e, per un certo tempo, scudiero della ripudiata regina d’Inghilterra Carolina di Brunswick, moglie disgraziatissima di Giorgio IV. Entrambi, Mills e Gell, erano personaggi autorevoli nella Roma della restaurazione e punti di riferimento per i loro connazionali.
La villa è andata distrutta negli anni trenta del secolo scorso per consentire gli scavi del palazzo di Domiziano, ma di Gell restano ancora, oltre alle lettere che inviò alla ‘Society of Dilettanti’, due importanti lavori topografici: quello che pubblicò nel 1820 insieme ad Antonio Nibby, finanziato dalla duchessa di Devonshire, alla quale fu dedicato, dal titolo ‘Le mura di Roma’ disegnate da W. Gell con un testo di Antonio Nibby e un altro, edito anch’esso a spese di un inglese, il conte di Blessington, nel 1937, ‘La Analisi storico topografica antiquaria della carta dei dintorni di Roma’.
Ci fu la mano degli inglesi persino in quella che avrebbe dovuto essere la tela da porre sull’altare maggiore della nuova basilica di San Paolo fuori le mura dopo l’incendio del 1823. Il Cardinale cattolico Thomas Weld la commissionò infatti al pittore Joseph Severn e avrebbe dovuto rappresentare ‘L’infante dell’Apocalisse’ portato in cielo. Non se ne fece nulla perché la tela scomparve misteriosamente prima di essere posta in loco.
L’incendio che distrusse l’antica basilica segnò per Roma la fine di un’epoca. La notizia fu risparmiata al vecchio Papa morente, ma la duchessa di Devonshire, avvolta in un lungo abito di seta grigia si recò sulle rovine fumanti e il Duca osservando la scena commentò amaramente: ‘Anche l’antica Roma è stata distrutta dal tempo e dal fuoco, ma tutto questo è avvenuto in cinque ore! Quelle meravigliose colonne di pavonazzetto ridotte in polvere!’ (ibidem, p. 60).
Ormai gli eventi precipitavano. Il Papa morì un mese dopo. Consalvi rassegnò le dimissioni, e nella Curia prevalse il partito degli Zelanti che portò sul trono pontificio Leone XII della Genga.
La Duchessa ed il Cardinale rimasero legatissimi, si vedevano due volte al giorno e si scrivevano anche più spesso. Elisabeth era l’unica ad avere la chiave del ‘Litus Pulchrum’, il giardino privato, sotto il Palatino, di fronte all’isola Tiberina, che Consalvi aveva dedicato alla memoria del suo amatissimo fratello Andrea, morto precocemente.
E fu sempre la Duchessa a commissionare a Thorvaldsen il busto del Cardinale da porre sul cenotafio al Pantheon. Si spensero entrambi a poco tempo di distanza l’uno dall’altro.
E scomparvero con loro i due più autorevoli protettori della vasta comunità di inglesi insediata nell’Ottocento attorno a piazza di Spagna. Sulla strada che conduce alla Basilica di San Paolo, accanto alla piramide, sepolcro del pagano Caio Cestio, esiste ancora, testimone di quell’epoca, il Cimitero degli Inglesi chiamato ora degli ‘acattolici’.
Furono gli inglesi a volerlo e la prima tomba che vi fu ospitata contiene i resti di uno studente venticinquenne di Oxford, un certo Langton, che morì a Roma nel 1738. Attorno ad essa si sono poi aggiunte quelle di centinaia di altre tombe: da quelli di Keats e del suo fedelissimo amico Joseph Severn, a Shelley, e a tanti altri nomi meno noti o del tutto sconosciuti. Persone che arrivate da oltremanica, da Hastings, da Winchester, da Walzer, dallo Shropshire, avevano scelto di restare a Roma.
In mezzo ad essi un monumento funebre innalzato da Richard Westmacott jr. reca il nome di Rosa Bathurst, la giovane inglese vittima di un atroce incidente che commosse Stendhal. Lo scrittore lo annotò nel suo diario di viaggio, raccontando che Rosa, appena sedicenne, cavalcava con un gruppo di amici lungo il Tevere fuori porta del Popolo. Il terreno reso cedevole dalla pioggia franò e lei finì con il cavallo nelle acque limacciose del fiume. Il suo cadavere fu ritrovato tra i ruderi del Ponte Molle (Stendhal, cit., pp. 1261-1263).
Il Duca di Devonshire ricorda di aver deposto sulla sua tomba un mazzo di violette
."

(1) la tomba della pittrice Angelica Kauffmann si trova nella Chiesa di S.Andrea delle Fratte, proprio in quella Chiesa fatta restaurare grazie alla donazione di una costosa tabacchiera da parte del Cardinale. Nella Chiesa vi è una lapide che ricorda la pittrice.

(2) Lady Elizabeth Hervey Duchessa di Dewonshire (1757 – 30.3.1824 a Roma), aveva sposato in seconde nozze (il primo marito fu John Foster), in Chiswick il 19.10.1809, William il 5° Duca di Devonshire (14.12.1748 – 29.7.1811), il quale, a sua volta, era stato sposato in Wimbledon il 5.7.1774 con Lady Georgiana Spencer (7.6.1757 – 30.6.1806).