1910 – ISTITUTO STORICO ROMANO

Dobbiamo un grande ringraziamento a quei mentanesi che nel 1910 dirigevano l'Università Agraria di Mentana.
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Grazie a loro siamo in possesso di una importantissima ricerca effettuata dall'Istituto Storico Romano sul passato storico di Mentana.
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Essa, visto che il progresso ci ha regalato internet e che il Comune di Mentana ha creato un suo sito web, meriterebbe di essere inserita nella pagina dedicata alla Storia di Mentana, insieme alla prefazione storica-archeologica del 1976 del prof. Corrado Pala nella sua opera "Nomentum".
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Precedentemente abbiamo scritto che la tenuta di Mentana passò sul finire del secolo XIX dai Borghese al Credito Fondiario del Banco di Napoli, da cui il 10.2.1912 passò al Cav. Michelangelo Di Stefano e che, infine, passò il 31.8.1916 all’Università Agraria di Mentana.
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L’Istituto Storico Romano, circa un secolo fa, fece una ricerca storica su Mentana e sugli “usi civici” per conto dell’Università Agraria di Mentana, che la pubblicò il 28 luglio 1912.
Si tratta di una relazione molto utile, perché va a completare più dettagliatamente le notizie storiche che precedentemente abbiamo dato, essendo state queste ultime “desunte da documenti inaccessibili, rovistati con assiduità e pazienza indicibile nei vari Archivi di Roma, e particolarmente in quello SEGRETO VATICANO, e nell’altro del BUON GOVERNO, e così nell’ARCHIVIO DI STATO e nell’ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO, ed anche nel FONDO ORSINI”. (Univ.Agr.Mentana. 1912, pag. 22).
(E’ interessante anche osservare l’evolversi della lingua italiana attraverso la relazione del 1912 ed i documenti citati negli “usi civici”).
 
UNIVERSITA’ 
AGRARIA DI MENTANA
ISTITUTO STORICO ROMANO
 
RELAZIONE STORICO – ECONOMICA
degli usi civici esistenti
nel territorio di Mentana
Foligno 28-7-1912
Società Poligrafica F: SALVATI
 
LE MEMORIE STORICHE
               DI MENTANA
 
Mentana, o Lamentana, prima fu chiamata Nomento. Risulta dagli antichi scrittori, che sia stata una piccola colonia fondata dagli abitanti di Albalonga, ossia dagli antichi latini, nel territorio Sabino, già conquistato da Latino Silvio terzo, re di Albalonga.
Fu poi sottomessa al dominio di Roma da Tarquinio I°.
In seguito si ribellò insieme ai Latini e Tuscolani, ma fu debellata dopo la vittoria al Lago Regillo.
Un’ultima volta insorse contro Roma, quando avvenne la insurrezione generale del Lazio, ma fu nuovamente ridotta alla sudditanza dopo la battaglia del Vesuvio, ed in quella ebbe in dono la cittadinanza Romana colla resa delle cose sacre, che erano divenute comuni anco coi Romani.
Secondo quando narra Plinio, il primo che coltivò l’agro Nomentano fu Aulo Stenelo, e dopo questo Rennio Palemone, insigne grammatico da Vicenza nel secondo secolo dell’era Cristiana.
Le vigne coltivate dai due valenti geoponici suddetti, producevano uve cotanto squisite e meravigliose, che molti da Roma venivano a Nomento per ammirarle. Il vino Nomentano era generoso, e si conservava per cinque anni.
I poderi e le vigne di Rennio Palemone furono poi comprate da Seneca il filosofo, che ne formò una splendita villa, celebrata da Plinio e Columella, che nel lodare la fecondità del terreno Nomentano, lo preferiva a qualsiasi suolo delle altre ville, che possedeva lo stesso Seneca.
Questi poi scrivendo a Lucilio, perché mai si fosse ritirato da Roma, e soggiornasse a Nomento, dice: “mi chiedi forse quale esito abbia avuto la decisione, che ho presa, di uscir da Roma? Non appena mi trassi fuori da quell’aria tanto pesante, in un baleno è rifiorita la mia salute, e quale vigore tu pensi io abbia acquistato dacchè io giunsi nel mio vigneto? Io mi cibo con vero appetito, ed ormai mi sono riavuto perfettamente. E’ svanito il languore del corpo e della mente, alla quale perfino il pensare riusciva gravoso, e già comincio a studiare di tutta lena”.
Anche Ovidio e Marziale s’ebbero una villa a Nomento. In quei pressi notiamo il “quarto del Mancino” (Mancini), nel quale si ammirava un antico sepolcro marmoreo sulla destra della via, e che era stato eretto da F. Flavio ed Ulpia Erodia sua consorte. Un altro sepolcro, anche più antico, nella stessa parte sulla via venne ridotto nel medio evo a torre semaforica per uso del Castello Nomentano.
Più oltre, sempre dallo stesso lato, avvi un piccolo colle, e la “Torre dei Turri”, che forse ebbe lo stesso uso che quella precedente.
Il sottosuolo del quarto sopraddetto, prova che la località fu abitata nell’epoca Romana. Un altro luogo degno di menzione è la piccola collina, detta “Montedoro”, prossima a Mentana, e che domina tutta la valle Corniculense-Tiburtina.
Nell’anno 317 di Roma avvenne una battaglia memorabile nei pressi di Nomento. I Fidenati ed i Veienti avevano nuovamente mosso la guerra ai Romani.
Questi, duce il dittatore Q. Servilio Prisco, assalirono i nemici collegati fra loro sulle colline Nomentane; e, secondo quanto narra Tito Livio, i Romani sconfissero completamente i loro nemici.
Nomento fu una delle più antiche sedi episcopali vicine a Roma. Un Primo Vescovo Orso nell’anno 415 dell’era cristiana, viene menzionato in una lettera, che il Pontefice Innocenzo I scrive a Fiorenzo. Vengono poi noverati altri sette titolari della sede vescovile di Nomento fino a Graziano nell’anno 593.
Ma nell’anno 600 alla stessa venne riunita la sede vescovile di Curi, e poi finalmente nell’anno 984 divenne sede vescovile della Sabina, e il titolare dimorava a Nomento.
Intanto fin dal secolo VIII, il Duca di Spoleto estendeva il suo dominio nella maggior parte della Sabina, dal torrente Allia (oggi Malpasso) fino al 14° miglio sulla via Salaria a Monte Rotondo e dall’antica Curi fino al territorio Reatino; così al ducato di Spoleto appartennero Fidene, Nomento, Gabio, Asperio, Otricoli e Narni.
Attese poi le continue successive fazioni di guerra dei Longobardi, Fidene, Gabio ed Asperio caddero in ruina, e dell’antica Curi restò in piedi un piccolo borgo detto Corese: soltanto Nomento ebbe vita fino al secolo X, ed in quello restò anche la sede del Vescovo Sabino, come già accennammo.
Nell’anno 741 Liutprando re dei Longobardi restituì a Papa Zaccaria il territorio Nomentano.
E’ degno di ricordo l’incontro dell’Imperatore Carlo Magno col Pontefice Leone III, avvenuto a Nomento, il 23 Novembre dell’anno 799.
L’Imperatore pranzò col Pontefice, e pernottarono ambedue a Nomento, poiché Carlo Magno fece l’ingresso solenne in Roma nel giorno 24 di Novembre.
In quell’epoca esisteva certamente il Castello Nomentano, e fu il primo che non avesse l’origine deudale, ma piuttosto militare: passò poi in potere della famiglia romana dei Crescenzi, i quali in seguito furono detti anco “Nomentani”. Questa famiglia potente rappresentò sempre la “romanità”, e l’aspirazione repubblicana di Roma, contro i Pontefici e gli Imperatori..
Forse le continue lotte e le gesta guerresche della famiglia dei Crescenzi, non furono favorevoli allo sviluppo economico, e cagionarono lo spopolamento di Nomento, e così sul finire del secolo X, quandoché apparì la massima potenza dei Crescenzi, sempre in opposizione al Pontefice, allora appunto nell’anno 984, cessò la sede vescovile Nomentana.
Esiste tutt’ora una memoria di Marozia dei Crescenzi-Nomentani, il moderno casale di Grotta Marozza, sul punto di riunione delle vie Nomentana e Salaria, a due miglia da Mentana, nel luogo delle acque “Labane”, che sono menzionate da Strabone.
Nell’anno 1060, i Normanni invasero e devastarono in modo miserando tutte le terre tuscolane e prenestine, ed anche quelle di Nomento, perché gli abitanti di quei territori erano ribelli al Pontefice Nicola II.
Il Duca di Calabria, Roberto Guiscardo, per aver sottomesso gli abitanti dell’agro di Nomento, fu appellato “Nomentano”.
Papa Gregorio VII (Ildebrando da Soana, ann. 1073-1085) durante il suo pontificato concesse il Castello di Nomento, col territorio, al Monisterio di S. Paolo, fuori le mura di Roma, come apparisce dal documento che segue.
Negli atti del Concilio Laterano risulta, che nell’anno 1139, nel giorno 3 aprile, durante l’adunanza dei Padri presieduto dallo stesso Pontefice Innocenzo II, l’Abate Azzo, del Monistero di S. Paolo fuori le mura, si querelò contro Stefano di Teobaldo ed i nipoti di lui, e Ottaviano di Oddone, perché specialmente questo ultimo, aveva occupato il Castello di Nomento, che fin dal tempo di Gregorio VII, era di pertinenza del Monistero sopraddetto.
Infatti Stefano di Teobaldo, ed i suoi nepoti, Teobaldo e Pietro, avevano invaso il Castello di Vaccareccia e Castelnuovo, nonché quello di Sorbo, ed Ottaviano di Oddone il Castello Nomentano, ed anche i Tiburtini avevano occupato il Castello di S. Paolo, ed una chiesa di S. Angelo in Perlaiule.
L’istanza fatta nel Concilio Laterano, sembra che non avesse seguito, perché pochi anni dopo Teobaldo Priore e rettore del Monistero di S. Paolo fuori le mura, alla presenza del Pontefice Innocenzo II, rinnovò la domanda dell’Abate Azzo, contro i medesimi usurpatori dei beni del Monistero.
Tuttavia Ottaviano di Oddone perduò nella occupazione e nel castello di Nomento, poiché rileviamo da una sentenza pronunciata fra l’anno 1186 e 1189, che le cose tuttora continuassero nello stesso modo.
Infatti Enrico VI, detto il Crudele, figlio dell’Imperatore di Germania Federico I Barbarossa, in una sentenza, emanata nel periodo di tempo sopraddetto, menzionò che in base ai privilegi concessi dal suo antenato (l’Imperatore Enrico III il Nero) ed a quelli accordati a favore del Monistero di S. Paolo anche dal proprio padre, l’Imperatore Federico, (che in quel tempo tuttora regnava), confermava coll’atto suddetto quanto aveva già sentenziato lo stesso Imperatore contro Stefano ed i suoi nepoti, nonché contro Ottaviano di Nomento, per l’indebita occupazione di quel Castello.
Aggiunse, che assumeva sotto la sua protezione Maccabeo Abate ed i Monaci di quel Monistero, e volle che fossero compensati con cento libre d’oro per i danni sofferti, ma che una metà della somma fosse riservata alla Camera Imperiale, ossia al disco.
Finalmente il Monistero di S. Paolo venne reintegrato nel possesso del Castello Nomentano, poiché la bolla d’Innocenzo III, del 13 Giugno 1203, quella di Onorio III, del 15 Maggio 1218, e del successore Gregorio IX, tutte confermarono il possesso del Castello Nomentano, e del tenimento di Grotta Marozza, al Monistero suddetto.
Il Muratori nella sua Storia d’Italia, riporta il diario di Gentile Delfino. In quello si narra che la famiglia dei Capocci, o Capoccini, esiliata dal Regno di Napoli, si rifugiasse a Roma al tempo di Innocenzo III (anno 1198-1216).
E poiché il Pontefice accolse quella famiglia sotto la sua protezione, così volle creare subito Raniero a Cardinale, uno degli stessi Capocci (o Capoccini). Il Diarista soggiunse che quel Cardinale comprasse Grotta Marozza, S.Angelo (che per questo appunto fu detto in Capoccia, poiché appartenne poi anche a Giovanni Capocci), Castell’Arcione e Nomento, che per la prima volta, in quel diario, viene appellata Lamentana.
Dobbiamo, però ritenere, che per quanto si riferisce a Nomento, non sia stato un vero e proprio acquisto, ma piuttosto una semplice concessione enfiteutica, dipendente sempre dal Monistero di S. Paolo, e che in seguito di tempo tramutossi in feudo.
Infatti, le Bolle pontificie, sopra menzionate, attestano la proprietà del Monistero di S. Paolo sopra il territorio Nomentano, fino all’anno 1236 durante il pontificato di Gregorio IX, mentre il Cardinal Capocci contrasse l’enfiteusi verso l’anno 1207, quandoché acquistò i tenimenti e Castelli, come abbiamo detto.
In appendice ad una Bolla del Pontefice Martino IV (anno 1281-1285), diretta a Giovanni Vescovo di Sabina, notiamo l’elenco delle Chiese Sabinensi, colla quota rispettiva della tassa del grano, che corrispondevano alla mensa vescovile: il Castello di Nomentana corrispondeva tre rubbie di grano.
Nell’anno 1303 morì Processo, figlio di Fiorello dei Capocci, e dispose che Nomento pervenisse a suo figlio Giacomo.
Questi nel suo testamento volle, che il suo figlio Paolo ereditasse Nomento con tutto il suo tenimento, e di tutti gli altri beni immobili e mobili fossero eredi i suoi figli, Paolo sopraddetto, Processo, Lella, Mabilia, Margherita e Ludovica.
Defunti poi tanto Paolo che Processo, i figli di questo, Giovanni, Costanza e Giovanna, non contenti della divisione del patrimonio dell’avo Giacomo, mossero lite per il possesso del Castello di Lamentana. Ma per intervento di alcuni amici e parenti, Giovanni degli Arcioni e Giovanni Bracciardini, fu firmato un compromesso fra le parti, che la causa sarebbe stata trattata amichevolmente, e decisa con arbitraggio in seguito alle prove testimoniali, che sarebbero state addotte dalle parti.
Nel giorno 19 Agosto dell’anno 1373, fu esaminato un tal Ognisanti, del Castello di Torre Marozia (Grotta Marozza). Questi depose come già fossero decorsi venti anni, dacchè era stata fatta la divisione fra i due fratelli Paolo Capocci, figlio di Giacomo ed un suo cugino, e durante il ventennio, il teste aveva constatato, che Giacomo avesse posseduto e goduto il Castello Nomentano col suo tenimento.
In seguito ad una grave questione insorta fra lo stesso Giacomo e Girolamo Orsini, Stefano Colonna, cognato del Capocci, prese in affitto il Castello Nomentano.
Terminato il dissidio, il Colonna restituì Nomento a Paolo Capocci, figlio di Giacomo, allora defunto. E da quel tempo Mentana fu sempre posseduta dallo stesso Paolo, finché non fu imprigionato e privato del detto possesso da Giacomo di Celso di Processo Capocci dei Capoccini.
Nell’anno 1374 Buccio, del q. Giordano di Poncello Orsini, promise la sua sorella Giovanna in moglie a Giovanni del q. Celso Capocci dei Capoccini del Rione Monti, colla dote di 2500 fiorini d’oro, e quegli in garanzia obbligò la metà del Castello di Nomento, e la metà del Castello di Monte Gentile.
Tale atto segna il primo rapporto fra Mentana e la famiglia Orsini.
Intanto il sopraddetto Giovanni, nell’anno 1375 nel giorno 17 ottobre, potè aumentare la sua porzione di possesso sul tenimento di “Nomentano”, poiché Buzio fu Paolo Capocci Capoccini, essendo stato soddisfatto dell’intero suo credito per quota ereditaria, fece rinuncia a favore del sopraddetto Giovanni, di qualsiasi ragione o diritto suo sul Castello di Nomento.
Giovanni del q. Celso Capocci dei Capoccini, dettò il suo testamento nell’anno 1377, ai 10 di Novembre, ed istituì eredi i suoi figli Processo e Luigi, lasciando ad essi il Castello di Nomento, e stabilì, che ove morissero senza figli, che dovesse a quelli sostituirsi quale erede, l’Ospedale di S.Spirito in Sassia a condizione che questo Istituto consegnasse l’intero Casale detto de “Buccamatiis”, fuori la porta Maggiore, alle sorelle del testatore, a Perna, cioè, moglie di Pietro Bobone Boscevis ed a Giovanna.
Che se l’Ospedale sopraddetto avesse rifiutato di fare ciò, in tal caso la Basilica di S.Maria Maggiore dovesse ereditare il Castello di Nomento, col patto di consegnare alle sopraddette a Perna e Giovanna il Casale di S.Basilio fuori di porta Domine, ossia Nomentana.
Dispose ancora che se detti suoi figli, Processo e Luigi, non avessero avuto figli, il testatore lasciava la metà del Castello di Monte Gentile a Celso e Giovanni, figli di Giacomo Celso, suo fratello germano.
Così si desume da un atto del Notaio Antonio de Scambis.
Un documento, che risale alla fine del secolo XIV, ci fa conoscere la popolazione del Castello Nomentano.
Questa ogni sei mesi prelevava dieci rubbia di sale, ed in conseghenza venti rubbia annue per uso del popolo.
E poiché un rubbio equivarebbe a Kg. 294,46 di sale, così si aveva una prelevazione annua di Kg. 5989,20, che a Kg. 7 per ciascun abitante, senza distinzione per età o per sesso, si desumerà che gli abitanti di Nomento erano 840.
Sembra altresì che la famiglia Capocci dei Capoccini avesse interessi con Giacomo Orsini, e che non potesse soddisfarli, poiché troviamo una sentenza dell’anno 1407, del giorno 30 Aprile, che ordinò il sequestro e l’investitura del Castello Nomentano a favore dell’Orsini sopraddetto.
Nell’anno 1407 era defunto Luigi Capoccini signore di Nomento, e perciò innanzi a Pier Francesco di Brancaleone, conte di Monteverde, Senatore di Roma, fu nominato Nicola de’ Mareri, marito di Lella Capoccini, tutore del minorenne Giovanni, figlio del defunto Luigi.
Un istrumento dell’anno stesso rogato nel giorno 8 di Ottobre, negli atti di Angelo di maestro Cecco, cittadino romano, c’informa del definitivo passaggio del Castello Nomentano nella famiglia Orsini.
Infatti i tutori di Giovanni Capoccini signore di Nomento, Antonio Chiafardella Nomentano e Nicola de Mareri, impressionati dello stato critico nel quale versava il patrimonio del Capoccini, comparvero avanti a Nicola de Bondiis di Roma, Giudice Palatino, e collaterale del Senatore, che sedeva come per consueto in Tribunale, posto nel refettorio della Chiesa di S.Maria in Aracoeli.
I tutori sopraddetti narrarono, che Luigi Capoccini padre di Giovanni, quando che visse, arrecò molte offese e danni ai cittadini romani e procurò, che altri facessero altrettanto, anzi per raggiungere meglio il suo intento, si dichiarò fautore e seguace del re Ladislao, ribelle contro il Pontefice Bonifacio IX, e compì atti ostili prendendo parte alle fazioni guerresche contro il popolo romano.
In conseguenza di ciò i tutori dubitavano, che il Pontefice d’allora, Gregorio XII, ed il popolo romano sommamente sdegnati, uniti insieme, insorgessero in danno del pupillo Giovanni Capoccini, ed occupassero per violenza il Castello Nomentano, che non poteva essere in modo alcuno difeso, in quanto gli altri luoghi posseduti dal suddetto Giovanni erano molto distanti da quel Castello.
Inoltre aggiunsero, che il sopraddetto loro pupillo minorenne, era assolutamente esausto di mezzi pecuniari, tantoché se avesse continuato a possedere Nomento, egli non avrebbe potuto in modo alcuno provvedere alle spese per la custodia e restauri occorrenti al suddetto Castello, quali si rendevano assolutamente necessari.
In conseguenza di ciò i tutori avevano deciso di vendere il predetto Castello, insieme ai beni e diritti a quello pertinenti, per poter soddisfare i debiti ereditarii, e perciò il tutore Antonio Chiafardella, anche in nome del contutore de Mareri, autorizzato debitamente dal Giudice nominato, compì “la vendita di tre integre parti”, delle quattro principali, del sopraddetto Castello Nomentano, e del suo tenimento, posto nel territorio e distretto della città di Roma, nella parte detta l’Isola fra i due fiumi (Tevere ed Aniene) e fra i noti confni: da un lato il tenimento di Monte Gentile, dall’altro quello del Castello di S.Angelo, di Giovanni Capocci, e da una parte il tenimento del Castello diruto di Grotta Marozza, salvi altri confini più esatti..
La vendita fu compiuta a favore di Giacomo Orsini conte di Tagliacozzo, che nell’atto venne rappresentato con speciale procura, da Egidio del q. Lello di Gallese, suo segretario particolare e procuratore.
Nell’atto vennero trasferiti agli Orsini tutti i diritti, così reali che personali, esistenti allora, ed in futuro a favore del pupillo Giovanni, tanto nelle tre quarti parti, quanto nella quarta, ed ultima parte, del Castello di Nomento, e del suo tenimento, quale quota restava congiunta ed indivisa col resto della proprietà.
Nell’istrumento suddetto non si fece menzione del proprietario della quarta parte di Nomento e degli altri fondi venduti con quell’atto.
Fu inoltre venduta la metà del Castello di Monte Gentile, la metà di Torricella, e del Castello di Lipari, che il pupillo possedeva nel tenimento del Casale di S.Onesto (oggi Marco Simone); inoltre la metà di una tenuta detta la Doza e tutto ciò per un prezzo complessivo di 16.000 fiorini d’oro. Fra i patti espressi colle solite formole, coi quali fu conclusa la sopraddetta vendita, si fece menzione anco dei “diritti dei vassalli”, che esistevano nei menzionati Castelli.
Nell’anno 1413, il Castello di Nomentana fu assediato, e poi occupato dalle soldatesche comandate da Ciarletto Caracciolo agli stipendi di Ladislao di Napoli, figlio di Carlo Durazzo.
Il conte Giacomo Orsini sosteneva colle armi il Ponetefice Giovanni XXIII, ma potè opporre che poca resistenza, poiché anche la flotta napoletana entrò nelle foci del Tevere, e per ciò Ladislao in breve tempo occupò Roma.
Intanto Orso Orsini di Francesco, signore di Monte Rotondo, fautore di re Ladislao insieme a Paolo Orsini, occupava il Castello Nomentano in nome di re Ladislao, e perché erano i signori vincitori a quel luogo.
Fra i registri del sale e fuocatico, conservati nell’archivio di Stato, notiamo una memoria, che riguarda il Castello Nomentano.
Esiste questa nel secondo volume, che servì di registro contemporaneamente al primo.
Il secondo è intitolato “In nomine Domini”, è tradotto in italiano e seguita: “questo è il libro della prima imposta del sale e fuocatico, e dei diritti della Camera di Roma, dovuti nel mese di settembre dell’anno 1422, dalle infrascritte città, terre e castella, ecc. a carte 19 r. si legge: Castello Nomentano rubbia 10 di sale. Nell’anno del Signore 1422, indizione I, mese di settembre, nel giorno 13, comparve avanti di noi Commissari e proposti all’esigenza del sale e fuocatico, Nicola Signorili e Nicola di Nucio di Pietro Giannini ecc. Nardo di Domenico notaio Sindaco e Procuratore del Comune ed uomini del sopraddetto Castello Nomentano, e giurò fedeltà al popolo romano prestata nella consueta forma, e pagò a noi Commissari per la presente seconda imposta del sale e del fuocatico, ed altri diritti dovuti alla detta Camera nel presente anno e mese, cioè: Primieramente per le dette 10 rubbia di sale fiorini 10. Item, per il diritto di fedeltà solidi 5. Item, per il diritto delle grascie solidi 35. Item, per il diritto delle misure solidi 2 denari 6. Item, per il diritto delle balestre solidi 13 denari 6. Item, per il diritto di 16 famiglie libbre 3, solidi 6 e denari 4. Item, per il diritto delle bollette solidi 8. E tutto ciò forma la somma di fiorini 13, solidi 2 e denari 6.
Dal riferito documento apparisce, che soltanto 16 famiglie erano tassate per l’imposta del fuocatico, e tutte le altre erano esenti, poiché dal consumo annuo del sale a Mentana, in rubbia 20, dobbiamo desumere che gli abitanti fossero oltre 840, che non potevano certo dimorare in 16 case soltanto.
Abbiamo già riferito che Orso Orsini signore di Monterotondo, al tempo di re Ladislao di Napoli, avesse violentemente occupato il Castello Nomentano.
Ma Giacomo Orsini conte di Tagliacozzo proprietario di quel Castello, con una sua procura aveva delegato Nicola Pierleoni, Giovanni Turzi, notari in Roma per muovere lite contro Orso Orsini. Il Tribunale Capitolino, nell’anno 1421, citò Orso Orsini a comparire entro tre giorni per provare il suo diritto. Sembra che questi non comparisse avanti ai giudici palatini, poiché una sentenza esecutoriale, emessa dall’uditore della Camera di Roma nel giorno 7 gennaio 1424, ordinò che Giacomo Orsini fosse reintegrato nel possesso del Castello Nomentano.
In seguito Orso Orsini reclamò al Pontefice Martino V, lagnandosi della sentenza come ingiusta, che lo condannava anche al pagamento delle spese, e per conseguenza fece istanza, che la causa fosse discussa in grado di appello dagli uditori del Tribunale della Rota.
Nell’anno 1426, l’uditore della Camera Apostolica, Domenico di S.Germano, riferì che la causa fra Orso e Giacomo Orsini per l’ingiusta occupazione del Castello Nomentano fosse stata discussa più volte dai Collaterali del Campidoglio, e che era stata decisa contro Orso.
Non ostante il Pontefice, in seguito all’istanza fatta dallo stesso Orso, volle che il sopraddetto Giudice Commissario, Domenico di S.Germano esaminasse nuovamente la causa.
Questi dopo un lungo studio, confermò la sentenza dei giudici capitolini.
In conseguenza nel giorno 30 Aprile dell’anno 1426, il il Senatore di Roma Valerio de Loschis da Vicenza, e la Curia Capitolina, dettero il mandato a due marescialli del popolo romano, onde colla forza delle armi togliessero il Castello Nomentano ad Orso Orsini, signore di Monterotondo, e ne dessero il possesso a Giacomo Orsini conte di Tagliacozzo.
L’atto fu eseguito nello stesso mese ed anno, senza alcuna opposizione, poiché Orso Orsini era già morto affogato nel giorno 27 luglio 1425, nella battaglia di Zagonara, ove furono distrutti i Fiorentini, guidati da Carlo Malatesta, al cui servizio trovavasi anco l’Orsini, ed avevano vinto le soldatesche del duca di Milano, condotte da Angelo della Pergola e da Guido Torelli.
Si fece a Mentana l’atto formale di possesso, chiamando a raccolta tutto il popolo, a suono di campana, e tutti i componenti la Università di Nomentana riconobbero per legittimo signore Giacomo Orsini, conte di Tagliacozzo.
Il giuramento di fedeltà fu prestato dagli abitanti nelle mani di Niccola Pietrucci delegato con speciale procura dallo stesso Orsini.
In seguito Giacomo Orsini venne a transazione colla vedova di Orso, Lorenza Conti, madre e tutrice di Giacomo, Antonio, Francesca e Lorenzo. E ciò avvenne per mediazione di Gentile, Latino e Carlo figli di Giovanni Orsini.
Le parti contendenti elessero per arbitri Gentile del fu Latino e Carlo di Giovanni Orsini, e questi pronunziarono un lodo col quale fu stabilito: che il conte di Tagliacozzo pagasse a Lorenza vedova di Orso Orsini 1800 fiorini d’oro di Camera, in compenso del Castello Nomentano, per la sua rocca, per il tenimento e per altri diritti.
La somma sopraddetta fu pagata dal conte Giacomo in due rate, la prima di fiorini 500 nel giorno del possesso di Nomentana, e la seconda di fiorini 1300 nel giorno 15 Agosto dell’anno 1426.
Da una Bolla del Pontefice Martino V, datata nel giorno 7 luglio 1452, si rileva, che fu accordata a Marino Orsini, arcivescovo di Taranto, insieme alla commenda di S.Maria e S.Vito, nel Castello diruto di Monte Gentile, e anche quella della Chiesa di S.Nicola posta fuori del Castello Nomentano.
Da un mandato della Camera Apostolica, per il pagamento del sale, notiamo, che nell’anno 1465, fra le terre e i Castelli, che obbedivano a Napoleone Orsini, conte di Tagliacozzo, eravi anche Nomentana.
Secondo il diario di Nantiporto, un terremoto, nell’anno 1484, arrecò gravi danni al Castello di Nomentana.
Nello stesso anno, fervendo una guerra civile fra le principali famiglie baronali nei pressi di Nomentano, l’accampamento delle soldatesche di Paolo Orsino (figlio naturale del Cardinal Latino Orsini) fu assalito dalle genti di Antonello Savelli.
Poco dopo lo stesso Paolo Orsini, avendo predato ai Romani molto bestiame, lo spedì al suo Castello di Lamentana.
Nell’anno 1484, avvenne la guerra tra Renato, ultimo degli Aujon, ed Alfonso d’Aragona, per la successione del Regno di Napoli e Sicilia. Gli Orsini sostennero gli Aragonesi e Renato perteggiò per il Pontefice Innocenzo VIII.
In quell’anno si combattè tra Roberto Sanseverino, condottiero delle soldatesche papali, e gli Orsini lungo la via Nomentana e specialmente al ponte Nomentano, e poi fu anche preso d’assalto e devastato il Castello di Monte Gentile, colla preda di molto legname quivi esistente.
Nei primi giorni di Gennaio dell’anno 1486, il Sanseverino cinse d’assedio il Castello Nomentano, e dopo cinque giorni se ne impadronì scacciando gli Orsini e le loro soldatesche da quel castello. In quei giorni morì anche un fanciullo figlio di Paolo Orsini, e rimase prigioniera del Sanseverino, anche Giulia di Paolo Santacroce, moglie dello stesso Orsini.
Papa Innocenzo volle, che insieme agli altri prigionieri presi nel Castello, Giulia Orsini fosse condotta a Roma, per poterne trattare lo scambio con altri, che pure erano stati fatti prigionieri dalla parte avversa e fra quelli dei Pontefici eravi anche Virgilio Orsini.
Il Cardinale Battista Orsini, del titolo di S.Maria in Dominica arcivescovo di Firenze, anch’esso ribelle ad Innocenzo VIII, promise di fare atto di sottomissione insieme a tutti i propri fratelli, e di consegnare allo stesso Innocenzo VIII tutti i Castelli e beni della famiglia. La stessa dichiarazione fecero Virgilio, Paolo ed Orsino fratelli Orsini, ma il Pontefice non volle accettare simile dedizione, avendo in animo di punire in modo più grave quei ribelli, come si esprime lo stesso Innocenzo, in un suo Breve del giorno 14 Gennaio 1496.
Intanto si sparse per Mentana una voce, che il Pontefice fosse morto. Allora i Mentanesi insorsero in armi al grido “Orso, Orso”.
Ma ben presto furono repressi, ed il Pontefice sdegnato fino all’eccesso, nel giorno 17 dello stesso mese comandò a Rainerio de Maschis, capitano d’armi, che raccogliesse subito 400 guastatori per demolire, e spianare fino al suolo tutto il Castello Nomentano.
L’ordine fu eseguito in pochi giorni, e tutto fu distrutto.
Un Breve del Pontefice sopraddetto, in data del giorno 6 Giugno dello stesso anno, denunziò che il Castello Nomentano col suo tenimento apparteneva alla Camera Apostolica.
In seguito però lo stesso Innocenzo VIII, con altro Breve, assolvè il Cardinale Battista Orsini e tutti i fratelli di quello, e i sudditi loro, da tutte le censure e pene nelle quali per causa d’inobbedienza e ribellione erano incorsi, e per conseguenza gli Orsini assoluti rientrarono in possesso delle loro terre e castelli.
Così nell’anno 1500, leggiamo, che Alessandro VI, immediato successore d’Innocenzo, fin dall’anno 1492, spedì un monitorio a vari Signori feudali del Lazio, e fra questi anco a Paolo Orsini, raccomandandolo che facessero sorvegliare le strade dai malviventi, che commettevano frequenti eccessi e grassazioni lungo le vie.
Nell’anno 1502 Paolo Orsini aveva ripreso le armi contro il duca di Urbino.
Occupata Sinigaglia, il duca Valentino, figlio di Alessandro VI, fece imprigionare quattro dei più potenti uomini, che esso temeva, ossiano Oliverotto da Fermo, Vitellozzo Vitelli, quali fece subito morire; Paolo Orsini, e Francesco duca di Gravina, cugino del suddetto, furono condotti a Castel della Pieve, e quivi strangolati, il 18 Dicembre dell’anno sopraddetto.
Il Valentino, prima di compiere tanto misfatto, volle essere sicuro, che il proprio padre Alessandro VI avesse fatto imprigionare il Cardinale Battista Orsini. Questi infatti chiamato dal Pontefice andò al Vaticano, e quivi fu arrestato e condotto in prigione, ove venti giorni dopo fu fatto morire di veleno, il giorno 21 Febbraio dell’anno 1502.
Così a Paolo Orsini successe il figlio Camillo di 10 anni, nel dominio del Castello di Lamentana.
Nell’anno 1525 un Breve di Clemente VII ordinò agli abitanti di Nomento, che non obbedissero ad altri se non che a Camillo Orsini, poiché Roberto Orsini in mancanza di Camillo voleva comandare nel Castello suddetto.
Camillo fondò a Mentana un Ospedale, che poi in seguito l’anno 1757, fu riunito colle rendite residuali alla Confraternita del Sacramento, attesoché che gli Amministratori del sopraddetto Ospedale ne avevano dilapidati i beni, lasciati per dotazione da Camillo Orsini, come rilevasi dal testamento del suddetto e da un codicillo posteriore.
Lo stesso Orsini confermò uno Statuto a Mentana compilato sopra un originale più antico, e si ritiene sia stato redatto nell’anno 1552, poiché l’unico originale esistente nell’archivio comunale di Mentana, è mutilo delle prime pagine, ma ha la firma autografa di Camillo Orsini.
E’ un manoscritto di settantaquattro mezzi fogli. Nello stesso archivio conservasi un quaderno separato di sei pagine, contenenti decreti e conferme di Mons. Dentice Visitatore Apostolico, al quale manoscritto è stata segnata una data sbagliata, e che deve essere invece dell’anno 1762.
Nella biblioteca del Senato del Regno, si conserva una copia completa dello Statuto di Mentana, cola data dell’anno 1619, epoca nella quale fu compiuta la copia stessa.
Camillo Orsini fece il suo testamento nell’anno 1552, ed essendo in vita, volle che fosse fatta la divisione di tutti i beni che possedeva, tra i due suoi figli maschi Paolo e Giovanni, lasciando qualche legato anche all’altro suo figlio, naturale e legittimato, che si chiamava Latino.
Ciò fu compiuto nel Palazzo Vaticano nel giorno 13 Dicembre 1552, nella camera da letto del Card. Reginaldo Polo, dei duchi di Suffolch inglese, e che era cugino del re Enrico VIII d’Inghilterra, già creato Cardinale da Paolo III. I periti Cesare, Tutoni e Giacomo da Monte Rotondo, giurarono alla presenza del suddetto Cardinale, di aver adempiuto fedelmente al mandato ricevuto, per eseguire la divisione di tutti i beni, che possedeva Camillo Orsini, che fu presente all’atto, insieme a Giacomo della nobile famiglia dei Crescenzi, e Andrea Salamoni, cittadino romano, il quale per incarico aveva già scritto tutto il verbale di divisione, che “tuttora conservasi in originale nell’Archivio Capitolino”.
Dall’atto di divisione fra i fratelli Orsini, risultano in modo evidente gli usi civici a favore degli abitanti di Mentana, come in seguito esamineremo.
Che anzi alla pag. 667 del protocollo degli atti di Massa Antonio Matteo, che si conservano nello stesso Archivio Capitolino (vol. 464) risulta, che l’estratto della divisione suddetta, per la parte che si riferiva ai diritti del popolo di Mentana, fu pubblicato in quel Comune “factum fuit publicum hominibus Castri Nomenti”.
Camillo Orsini morì il giorno 24 Aprile dell’anno 1559.
Nell’anno 1579 il Pontefice Gregorio XIII, con un suo Breve datato il 28 Settembre, eresse “Mentana in marchesato”, accordando a Paolo Orsini, figlio di Camillo il termine di due mesi, per far registrare nella Camera Apostolica l’atto Pontificio.
Nell’anno 1588, il tenimento di Mentana fu liberato da qualsiasi vincolo fidecommissario ed anche separato dalla tenuta di Monte Gentile, in seguito ad una sentenza emessa da Serafino Olivari Razalli, uditore di Rota, e Commissario Apostolico.
Nell’anno 1592 i fratelli Fabio e Virginio Orsini, nel giorno 19 Marzo, stipolarono una convenzione di rescissione per l’affitto del tenimento di Mentana poiché già erano in corso serie trattative, per la vendita della stessa tenuta.
Infatti nell’anno 1594, nel giorno 21 Luglio, Virginio e Fabio Orsini vendettero a Michele Peretti, marchese d’Incisa, pronipote di Sisto V, il Castello di Nomento, volgarmente detto Nomentana, col suo territorio, e che aveva per confini S.Angelo in Capoccia da un lato, Castel Deodato (oggi Castel Chiodato) dall’altro, e le terre del territorio di Monte Rotondo, la tenuta della Chiesa di S.Giovanni in Laterano, ossia la “Cesarina” e la strada romana.
Il tenimento comprendeva i terreni coi vocaboli dei quarti di Formelluccio, Gattaceca, Montepizzuto, Trentani, Conca e degli Apostoli, Torre Lupara, ossia S.Margherita, ed altri quarti e terre, non espresse, ma che erano comprese nell’affitto, che allora conduceva Filippo Ravenna.
La vendita fu conclusa nelle formalità solite del mero e misto impero, “ac gladii potestate nec non banco justitiae”, coi vassalli e coi diritti dei vassalli stessi. E fra i beni stabili venduti v’era compreso anche il palazzo grande, e tutte le abitazioni e case, la grande stalla ed il fienile, siti presso le mura del Castello, colla Rocca, e tutti gli altri edifizi, tanto dentro che fuori del Castello, non che l’albergo, il forno, e tutto il borgo, esistente di fronte alla porta dello stesso Castello, ed anche la vigna grande, e le altre vigne, albereti, fondi rustici, prati, ecc.
Il prezzo totale della vendita sopraddetta ascese a scudi 255.000 (L. 1.370.625) della qual somma si convenne, secondo il Breve Pontificio, rilasciato da Clemente VIII per l’autorizzazione alla vendita, che all’atto della stipulazione fossero pagati soltanto scudi 173.000 ed il residuo, dopo che fossero espletate le pratiche, per il trasferimento dei fedecommessi, e spedite le relative lettere d’autorizzazione.
Nell’anno 1655, il Card. Francesco Peretti figlio del sopraddetto Michele, con un suo testamento del 2 Maggio, lasciò in eredità Mentana col suo tenimento, a Paolo Peretti Savelli, figlio di Maria Felice sua sorella.
Nello stesso anno il principe Marcantonio Borghese, nipote di Paolo V, acquistò la tenuta di Mentana da Michele Peretti, Giuniore, e dall’abate Paolo Savelli Peretti, per il prezzo convenuto di scudi 343.000 (L: 1.844.952,62) come tutto risulta dall’atto di vendita rogato in solido dai notari Petruccioli Domenico e Simoncelli, in data 17 Novembre dell’anno sopraddetto.
Nel secolo XIX Mentana va ricordata nei fasti della gloria del risorgimento italiano, per la memoranda battaglia tra i volontari italiani, Duce Giuseppe Garibaldi, ed i franco-pontefici nel giorno 3 Novembre 1867.
Tale avvenimento schiuse all’Italia la via per conseguire la sua Capitale, Roma, ciò che avvenne appena dopo un triennio!
Compiuta così la narrativa delle memorie e delle vicende del Comune di Mentana, desunte dagli autori storici e dai documenti, l’Istituto Storico Romano è soddisfatto per aver adempiuto con tutta la diligenza e l’impegno possibile al mandato conferitogli dalla Spettabile Università Agraria di Mentana, che volle lodevolmente far ricostruire e rammentare il passato del proprio Comune, che è certo memorando nella storia, poiché fu già il “prima Castello di origine non feudale, ma romana”.
L’ISTITUTO STORICO ROMANO
            Prof. Giacomo Sercia
          Cesare Delupis, estensore
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(Da pag. 22)
 
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UNIVERSITA’ AGRARIA DI MENTANA
ISTITUTO STORICO ROMANO
RELAZIONE STORICO – ECONOMICA
degli usi civici esistenti
nel territorio di Mentana
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Foligno 28-7-1912
Società Poligrafica F: SALVATI
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Alla memoria storica fa seguito una relazione economica di tutti gli usi civici, che già s’ebbero vita e vigore in tutto l’intero territorio di Mentana.
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Furono desunti da documenti inaccessibili, rovistati con assiduità e pazienza indicibile nei vari Archivi di Roma, e particolarmente in quello SEGRETO VATICANO, e nell’altro del BUON GOVERNO, e così nell’ARCHIVIO DI STATO e nell’ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO, ed anche nel FONDO ORSINI”, dal quale specialmente furono tratte tutte le notizie, che si riferiscono a Mentana per le sue vicende storiche.
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Nell’esporre quello che si compete al buon diritto dei Mentanesi per l’esercizio e godimento dei vari usi civici di semina, di pascolo, di legnatico, e di falciare l’erba, e per altri diritti nell’intero territorio nomentano, l’Istituto Storico Romano fa sinceri voti, che il ricordo del passato, in cui si agitarono tante cause con maggiore o minor fortuna, ma sempre con difetto di documenti, per il conseguimento dell’esercizio degli usi civici, possa spingere la Università Agraria, ora che è stata messa in luce la storia economica del Comune, a conseguire l’agognato benessere, sempre con la legalità necessaria, non disgiunta però dalla fermezza ne’ propositi indispensabili a raggiungere lo scopo finale.

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L’USO CIVICO DI SEMINA
Tale uso è consacrato a Mentana dal diritto statuario, rinnovato verso l’anno 1552 dal Signore del luogo, Camillo Orsini, figlio di Paolo, ma lo Statuto deve rimontare ad epoca più remota, come già dicemmo.
Nel libro sesto del suddetto, nel capitolo “sui raccolti delle terre lavorate, ossia seminate” fu stabilita la quota della “quarta”, per corrisposta al Signore di Mentana.
In conseguenza fu ordinato, che tutti i lavoratori dei quarti fossero obbligati a dare per corrisposta la “quarta parte dei raccolti”, che sarebbero stati conseguiti in qualsiasi appezzamento di terreno, (quarto designato).
Chiunque poi avesse eseguito la sementa in un quarto diverso, che non fosse quello stabilito, avrebbe perduto il lavoro della maggese, la sementa ed anche il raccolto. (Doc. 1).
Nell’anno 1588 al tempo di Fabio e Virginio Orsini figli di Latino, e nipoti di Camillo sopraddetto, fu discusso nel Consiglio generale, tenuto il giorno 3 Febbraio, sulla quantità del terreno da ripartirsi fra i lavoratori, e fu stabilito, che occorrevano almeno cinque rubbia di superficie, e non quattro, come si solevano ripartire per ciascun bovattiere.
Ed il Consiglio deliberò, che una quantità inferiore non sarebbe stata neppure sufficiente a coprire le spese per i garzoni dei bovattieri, ed in conseguenza fu espressa la ferma volontà di lavorare la quantità sufficiente di terra secondo le consuetudini e norme, che allora vigevano. (Deliberazione Consigliare 3 Febbraio 1588, doc. 3).
E poiché il dissidio colla Corte, ossia coi rappresentanti del barone, non si era composto, fu tenuto un altro Consiglio generale, nel giorno 9 Febbraio 1588, ed in quello fu deciso di fare i necessari lavori, dando sei arature alla terra, ma per la quantità da assegnarsi a ciascun bovattiere, “e di non cedere in modo alcuno”, e di volere la quota di terreno consueta, secondo gli usi di quel tempo. (Deliberazione Consiliare 9 Febbraio 1588, doc. 4).
In altro Consiglio pubblico, tenuto il 23 del mese di Ottobre dell’anno sopraddetto, fu partecipato che i signori Fabio e Virginio, figli di Latino Orsini, volevano che i lavoratori delle terre per le mezzagne lasciate incolte, pagassero la corrisposta della sesta, per ciascun rubbio incolto.
Il Consiglio decise, che si fossero pregati i detti Signori a non far pagare quello, che non fu mai solito a Mentana, che se avessero insistito nel pagamento, in tal caso si fosse proceduto alla stima del pascolo delle mezzagne, e “tale perizia ed importo d’erbe, fosse a carico dei Signori Orsini”. (Deliberzione Cons. 23 Ottobre 1588).
Nel seguente anno 1589 nel mese di Febbraio, per ragione di divisione, od attribuzione di quota ereditaria, i periti Giovanni Fontana, Prospero Rocchi, Bernardino Valperga ed Antonio Ilarione, furono eletti a deputati a fare la stima, ed a riferire sul valore del territorio e Castello di Mentana sui camporili, lavorativi, prati, macchie, vigne, ecc.
Da quella perizia e stima risulta, che tutte le terre lavorative, piani, monti e colli fossero della superficie approssimativa in complesso di rubbia 1800. (Archivio di Stato, Arch. Cam. Com. Instrum. Castri Nomenti).
Nel giorno 1° Gennaio dell’anno 1590, fu riunito il pubblico Consiglio, e fu partecipato l’ordine dei fratelli Fabio e Virginio Orsini, che i lavoratori pagassero per corrisposta dei terreni due rubbia per ciascun rubbio di terreno, tanto a maggese, quanto per il terreno che fosse stato seminato a colto, senza che alcuno dovesse pagare nulla di più per il titolo di entratura.
Il Consiglio a pieni voti decise, che fossero pregati i signori Orsini a non “far peggio di quello che era stato fatto nel passato” (sic). Ciò fu deliberato in presenza di Tarquinio Macario commissario di Fabio Orsini, e che in quel giorno aveva sostituito nel Consiglio il Vicario assente. (Deliberzione Cons. 1 Gennaio 1590).
Dai documenti si rileva, che i signori Orsini perduravano nelle loro pretese, perché nella successiva adunanza Consigliare, avvenuta il giorno 4 Gennaio del sopraddetto anno, fu partecipata la proposta del barone Virginio Orsini, che voleva dare i suoi terreni alla Comunità, per la corrisposta fissa a contante di giulj 42 a rubbio, e prometteva anche una diminuzione di tale corrisposta, ma intendeva di concedere in enfiteusi i terreni, fino a terza generazione mascolina o femminile, con facoltà di esguire qualsiasi coltivazione si fosse creduta utile.
Ma il Consiglio Comunale, fermo nelle sue decisioni, nuovamente deliberò, che fosse pregato Virginio Orsini a “non voler far peggio di quello che avevano fatto i suoi antecessori (sic.). Così fu deciso in presenza di Tarquinio Macario, che sostituiva il Vicario. (Deliberzione Cons. 4 Gennaio 1590).
Tuttavia gli Orsini, pertinaci nelle loro pretese, fecero nuovamente convocare il pubblico Consiglio nel giorno 28 Gennaio 1590.
Fu in quello riferito, che il “padrone” Virginio Orsini non voleva dare più le terre alla quarta di corrisposta, come si soleva, ma chi ne volesse, dovesse prenderla fino a terza generazione, per la corrisponenza di 42 giulj ogni rubbio, e con facoltà di poter fare qualsiasi miglioramento avesse creduto.
Ma il Consiglio deliberò nuovamente, che i lavoratori non avrebbero coltivato il terreno, se non per la corrisposta alla “quarta”, come “era stato sempre solito”.
Che se poi il Signore non volesse dare i terreni, secondo la consuetudine, in tal caso si dovesse far preghiera allo stesso Signore, perché non volesse commettere un’ingiustizia. ma se poi insistesse nel rifiutare di dare le terre, in tal caso occorrerebbe di sperimentare le ragioni, come sarebbe stato necessario. (Deliberazione Cons. 28 Gennaio 1590).

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I Massari furono costretti, per la quarta volta, a convocare il Consiglio pubblico, perché gli Orsini con una persistenza incredibile, pretendevano che i Mentanesi dessero una corrisposta fissa di due rubbia di grano per ciscun rubbio di terreno seminato, ovvero contraessero un enfiteusi per le terre fino a terza generazione, corrispondendo un canone annuo di giulj 42 per ciscun rubbio.
Ma simili proposte non furono accettate, né sembrava probabile che fossero ammesse in seguito, e per questo motivo i Massari convocarono il Consiglio generale.
Intervennero 67 lavoratori, ed eccetto tre presenti, tutti gli altri votarono per la nomina di due procuratori, perché s’iniziassero gli atti giudiziari per la difesa dei diritti della Università dei lavoratori. (Deliberazione Cons. 6 Febbraio 1590).
Nell’anno seguente perdurava tuttora la ostinazione del barone di Mentana, poiché nell’adunanza Consigliare del giorno 8 Gennaio 1591, nuovamente fu proposto per parte dell’Orsini, che non voleva distribuire le terre se non corrispondevano due rubbia di grano per ciascun rubbio di superficie, e non già come prima era stato solito.
Fu deciso nuovamente, che i Massari pregassero i Signori Orsini (che in quel tempo stavano in Roma) perché non volessero levare quello, che era “stato fatto sempre secondo il solito per uso e godimento delle terre”. Che se poi i Massari non avessero potuto ottenere quello che si chiedeva, avessero interposto qualche persona per raggiungere lo scopo, ed in ultimo se nulla fosse stato conseguito, si dovesse nuovamente riunire il Consiglio. (Deliberazione Cons. 8 Gennaio 1591).
Né i buoni uffici, e le preghiere valsero a far desistere dalla pretesa ingiusta gli Orsini. Che anzi trovarono un espediente per sottrarsi alle premure incessanti, poiché nell’anno stesso 1591, affittarono col suo tenimento, ad un tal Filippo Ravenna da Genova.
Questi certamente eccitato da quanto aveva saputo dagli Orsini e dalla pubblica fama, appena fu immesso nell’affitto fece bandire dal suo rappresentante Gio. Battista Bologna, che non inteneva di voler assegnare più le terre alla “quarta”, ma pretendeva due rubbia per ciascun rubbio di superficie di terreno seminato.
Fu necessaria la convocazione del Consiglio, e questo con la solita costanza, rifiutò la proposta di prendere le terre a staglio, e deliberò di volere le terre secondo l’antico uso, cioè alla “quarta” del prodotto. (Deliberzione Cons. 20 Febbraio 1591).
Nuovamente fu riunito il solito Consiglio, nel giorno 2 Marzo 1591, poiché il fattore Bologna, per ordine ricevuto dalli signori Fabio e Virginio Orsini, non distribuiva le terre, ed intanto la stagione si inoltrava in modo, che il lavoro della terra, non sarebbe rimasto più proficuo per la sementa. Nell’atto Consigliare non si fece menzione dell’affittuario Ravenna, come già fu narrato, rilevandolo dal verbale del precedente Consiglio.
I Massari nuovamente comunicarono al Consiglio le pretese richieste dal fattore Gio. Battista Bologna, e che gli Orsini avevano risposto nel modo e forma come sempre.
Intanto si preoccupavano perché fino a quel giorno non fossero state assegnate le terre.
Fu deliberato che si ottenessero tanto terreno, quanto sarebbe stato conveniente e necessario ai lavoratori del Comune, e colla corrisposta alla “quarta”, conforme agli Statuti, ed a quanto era stato sempre osservato.
In caso diverso protestavano nel modo più efficace che potevano, e gli uomini del Comune per non restare privi di terra per lavorare, sarebbero andati a lavorare ove meglio sarebbe loro tornato, e ciò avrebbero compiuto per giustizia, senza incorrere in qualsiasi pena statutaria, od arbitraria, e ciò perché l’inosservanza ai patti non veniva da loro, se fossero andati a lavorare le terre fuori del territorio di Mentana, che anzi ci sarebbero andati forzatamente, non avendo potuto ottenere terreno per lavorare entro il loro territorio. In caso diverso, come avevano detto, nuovamente protestavano nel modo più efficace. (Deliberazione Cons. 2 Marzo 1591).
Dagli atti Consigliari non risulta, come sia stata risoluta la questione della corrisposta delle terre, dopo l’anno 1591.
Però abbiamo già narrato, che nell’anno 1594, il Castello ed il tenimento di Mentana fossero stati venduti a Michele Peretti Marchese d’Incisa.
Apparisce dall’atto Consigliare del giorno 13 Dicembre 1598, che tuttavia perdurassero le pretese del nuovo Signore di Mentana, poiché i Massari deploravano, che le finanze del Comune non permettessero che si movesse lite al Peretti nuovo marchese di Mentana. In seguito a proposta di Giacomo Savelli, fu deciso di ricorrere al Pontefice Clemente VIII; che in quei giorni doveva passare per Castel Nuovo di Porto, di ritorno da un viaggio, come accenna l’atto Consigliare predetto.
L’intero Consiglio invocò l’osservanza del così detto “Codicillo” di Camillo Orsini, che non è altro, se non che il verbale di divisione fra Paolo e Giovanni Orsini, figli di Camillo, in data 13 Dicembre 1552, come già notammo nella relazione storica.
Nell’atto Consigliare sopraddetto, risulta una protesta di Giovanni Mazzotti, rappresentante del marchese Peretti, il quale pretese, che il Comune esprimesse per iscritto quali capitoli dello Statuto si dovessero osservare, e nello stesso verbale fu preso atto, che il Mazzotti dichiarasse, che oltre ai danni e le spese da rimborsarsi dai Mentanesi, non avrebbe tralasciato di “castigarli punirli con tutte le pene di ragione, anco all’arbitrio di sua Eccellenza”. (Deliberazione Cons. 13 Gennaio 1598).
Come già abbiamo osservato, i verbali del Consiglio Comunale non recano luce abbastanza nelle singole questioni, poiché spesso ci danno cognizione del periodo più grave, quando che veniva contraddetto ed impedito l’uso civico di semina, e specialmente quando si pretendeva una corrisposta superiore a quella statuaria, ma in seguito i verbali stessi cessano, in quanto si deve ravvisare, che il Consiglio si adunava raramente, e quando i Massari lo credevano indispensabile.
Così arriviamo alla deliberazione Consigliare del 23 Aprile 1651, colla quale fu deciso che i Massari facessero il “riparto delle terre” ai lavoratori, che le avessero richieste nei piani di Valle Ricca, insieme alle cese da farsi in quelli, e da seminarsi per tre anni consecutivi, senza pregiudizio della consuetudine osservata per il turno di coltivazione in uso. (Deliberazione Cons. 23 Aprile 1651).
E così nell’anno 1750, avendo il Comune deliberato di distribuire al lavoratore molto terreno di proprietà dello stesso e poiché il grano da seme veniva anticipato per consuetudine dallo stesso Comune, così fu chiesto alla Congregazione del Buon Governo, di poter somminestrare per seme, il grano del Monte Frumentario, con patto che venisse reintegrato nell’anno seguente. (Arch. del B. Governo. Miscellania. II, doc. 6).
Anche nell’anno 1779, la Congreg. del B. Governo decise, che terre di proprietà del Comune fossero divise fra i coltivatori, affinchè potessero dal lavoro trarre la vita. Infatti nella deliberazione consigliare del giorno 28 Ottobre 1779, viene riportato integralmente l’ordine comunicato ai Priori di Mentana, perché fosse deliberata dal Consiglio la ripartizione fra i lavoratori ed i braccianti delle terre di Monte Pizzuto e Coste le Olive, di proprietà Comunale. Il Consiglio deliberò favorevolmente sulla proposta fatta. (Deliberazione Cons. 28 Ottobre 1779).
Che tale fosse la consuetudine del Comune di Mentana, quella cioè di ripartire fra gli agricoltori le terre di spettanza Comunale, viene anche provato da un atto testimoniale, allegato alla relazione di F. Angelucci Visitatore Apostolico, nella sua relazione del 2 Giugno 1824.
In quella tre anziani del Comune deposero concordemente, che quando il quarto di Monte Pizzuto apparteneva al Comune, veniva dato a seminare in tante divisioni o parti ai cittadini di Mentana.
Così anche gli stessi anziani attestarono, che l’industria maggiore, che serviva di sussistenza ai cittadini di Mentana, fosse quella del bestiame, e dell’agricoltura delle loro terre e sementa, e che senza ciò, sarebbe mancato per tutti qualsiasi mezzo di sostentamento. (Arch. del B. Governo. Miscellania. II, doc. 27).
Dalla citata relazione dell’Angelucci nell’anno 1824 risulta, che il territorio di Mentana essendo posseduto quasi interamente dal principe Borghese, non eravi alcuno in quel luogo, “che fosse padrone di un fondo libero, dovendosi sopra qualsiasi prodotto dare annualmente una corrisposta al proprietario del dominio diretto. (Arch. del B. Governo. Miscellania. II, doc. 29).
Così ancora dall’esame del rapporto statistico della Comunità, per la situazione economica nel sopraddetto anno 1824, risulta, che per “i diritti del popolo sopra i terreni già comunali, e quelli del principe Borghese”, nonché per l’esiguità delle tasse dalle quali era gravato, tutto contribuiva a rendere ottima la situazione economica degli abitanti di Mentana. (Arch. del B. Governo. Miscellania. I, doc. 30).
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(Da pag. 30)
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RELAZIONE STORICO – ECONOMICA
degli usi civici esistenti
nel territorio di Mentana
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PASCOLO PER I BUOI ARATORI
Nel verbale di divisione fra i fratelli Paolo e Giovanni Orsini di Camillo, del Dicembre dell’anno 1552, redatto dai periti agrimensori Cesare e Giacomo di Monte Rotondo, si legge: “che gli stessi signori Cesare e Giacomo dichiararono, che il terreno ed i pascoli per i buoi degli uomini del Comune di Mentana, chiamati col vocabolo di “Trentani, e tutte le costiere di Monte Gobbo”, fossero state godute in comune dai bestiami della Comunità e da quelli dei signori Orsini”.
Vennero poi stabiliti i confini della zona pascoliva per i buoi.
E poi fu soggiunto: “che se fosse avvenuto, che i detti pascoli in seguito non fossero stati sufficienti per i buoi aratori dei predetti uomini e della Comunità, (poiché avveniva che i suddetti uomini del Castello di Nomento aumentavano annualmente il numero dei loro buoi) allora in simile circostanza i fratelli Orsini insieme, dovessero provvedere il pascolo sufficiente, e se fosse stato necessario di somministrare i pascoli “anche per le vacche e per gli altri animali minuti” degli abitanti del Castello, parimenti i fratelli suddetti avrebbero dovuto provvedere i pascoli necessari, egualmente con larghezza, e ciascuno di essi nello stesso modo, e spontaneamente somministrare i pascoli sopraddetti. (Arch. Capit. Atti orig. Massa Antonio Matteo, Vol. 464, pag. 661 t. doc. 2).
In seguito, alcuni forastieri di Mentana si erano fatto lecito di far pascere i loro buoi nel pascolo adibito per uso comune; perciò nell’anno1585 nel giorno 10Novembre, fu tenuto Consiglio generale, nel quale fu esposto quanto sopra, e fu deciso, che “chiunque non abitasse in Lamentana e non pagasse i tributi per le spese del Comune”, non potesse far pascere le proprie bestie nel pascolo del Comune. Che gli abitanti in quello, dovessero farvi pascere i giovenchi soltanto, quando che avessero l’età di 30 mesi, in quanto il pascolo occorreva per i buoi aratori. (Deliberazione Cons. 10 Novembre 1585).
Attesa la penuria dei raccolti e le urgenze degli abitanti di Mentana, nell’anno 1606 nel giorno 17 Settembre, fu convocato il Consiglio, che si adunò nel tinello del Marchese Peretti, che allora era già proprietario del Castello e tenimento di Mentana.
In quella adunanza fu proposto, di chiedere al Marchese il pascolo per i buoi e per le vacche, in quanto non erano sufficienti i pascoli in uso, e che lo stesso Marchese volesse fare il prestito del grano da seme, come ancora del grano necessario alla vita dei più poveri del Comune.
Fu risoluto, che due dei Massari si recassero dal Marchese Peretti, per ottenere quanto sopra. (Deliberazione Cons. 17 Settembre 1606).
Anche da una decisione Consigliare successiva, del giorno 5 Gennaio 1614, rileviamo, che si insisteva a che il pascolo fosse adibito esclusivamente per i buoi aratori, e fu deliberato, che i proprietari di quelli, dovessero pagare un guardiano per far allontanare dal pascolo tutte le bestie, che non fossero atte al lavoro. (Deliberazione Cons. 5 Gennaio 1614).
Ciò viene confermato anche da un altro atto Consigliare, del giorno 18 Agosto 1675, col quale fu deciso, che nè le cavalle nè le vacche, potessero pascere nel pascolare dei buoi, e fu stabilito di applicare, in caso di contravvenzione, la penale di uno scudo a capo, tanto per le vacche quanto per le cavalle, e che un guardiano stabile sorvegliasse la osservanza di ciò. (Deliberazione Cons. 18 Agosto 1675).
Le consuetudini statutarie vennero mantenute sempre, non ostante le continue opposizioni dei Baroni, e le irregolarità tanto dei forastieri, quanto anche degli abitanti di Mentana. Così dall’atto Consigliare, del giorno 12 Maggio 1761, rileviamo, che certi signori Cruciani, avendo eseguito una quantità di sementa nel territorio, si erano poi fatto leciti di far pascere non solo i loro buoi, ma anche le loro vacche, con danno dei bestiami dei Mentanesi.
Dall’atto stesso risulta, che il pascolare dei buoi “veniva assegnato tanto dal Comune”, quanto dall’affittuario del tenimento di Mentana, e non da altri, e tutto ciò era riservato esclusivamente per i buoi aratori degli abitanti di Mentana, e “mai per quelli forestieri”. Fu deliberato che simile diritto fosse a beneficio dei soli terrazzani e per legittimare quanto avevano compiuto i signori Cruciani, questi furono riconosciuti per cittadini di Mentana in seguito a votazione (Deliberazione Cons. 12 Maggio 1761).
Ed il privilegio per il pascolo dei buoi aratori, si volle fosse conservato anche quando che nell’anno 1771, erasi venduto il taglio delle due macchie di S.Giovanni e Trentani. Fu stabilito nei patti contrattuali d’asta, del giorno 6 ottobre dell’anno sopraddetto, che a chiunque fosse rimasta la punta e la foglia residuale del taglio, non avesse potuto farla pascere dalle sue bestie, se prima ambedue le macchie non fossero state pascolate dai buoi aratori di Mentana. (Atto d’asta per il taglio delle macchie 6 Ottobre 1771).
Dal Catasto di Mentana dell’anno 1782, (ora conservato nell’Ufficio del Catasto in Roma) risulta quanto segue:
Libro I a pag. 259.
N. 486, nel quarto dei Mancini (Voc. delle Due Torri)  Rubbia 48
Libro I a pag. 260.
N. 487, nello stesso quarto (Voc. Colle Surgo)  Rubbia 15
Libro III a pag. 574.
N. 1049, Selva dei Cavalieri     Rubbia 42
Libro III a pag. 577.
N. 1053, Quarto dei Trentani (parte)    Rubbia 27
Libro III a pag. 578.
N. 1054, Come sopra Idem     Rubbia 13
Libro III a pag. 579.
N. 1055, Come sopra per la parte macchiosa   Rubbia 12
      TOTALE Rubbia 157
Detti apprezzamenti di terreno, come risulta dallo stesso Catasto, erano gravati “del continuo pascolo a favore dei buoi aratori” per tutto l’anno, (Catasto di Mentana anno 1782, doc. 10).
A tutelare anche più il pascolo per i buoi aratori, il Consiglio Comunale, nell’adunanza del 26 Gennaio 1783, usando della sua facoltà di riformare lo Statuto, a termine del Capitolo 176 del libro, III, dopo aver chiesto la debita autorizzazione al Principe Borghese, decise che non ostante quanto permetteva lo Statuto vigente, di ritenere capre e pecore, che potevano pascere nei luoghi consueti, pagando una certa corrisposta alla Corte Baronale, tuttavia in considerazione che veniva a mancare il necessario pascolo per i buoi aratori fu deliberata a grande maggioranza la proibizione di tenere pecore e capre nel territorio. (Deliberazione Cons. 26 Gennaio 1783).
Da un estratto fatto dal Catasto nell’anno 1788 nel giorno 11 Febbraio, risulta, che un terreno (parte di Trentani), della superficie di rubbia 13, gravato della servitù del “jus lignandi” a favore dei cittadini boattieri, era altresì gravato dal pascolo annuale dei buoi dei cittadini, sì d’estate che d’inverno. (Arch. del B. Governo. Miscell. II posiz. II).
Anche nell’atto di transazione tra il Principe Borghese e 55 abitanti di Mentana, in atti di Camillo Serpetti notaio in Roma, 31 Agosto 1816, all’art. 6 si dice:
“Manterrà S.E. il sig. Principe Borghese ai bovattieri di Mentana il pascolo della quantità di rubbia 20, da destinarsi nel terreno di suo pieno dominio in Voc. Dodici Apostoli, e “li medesimi bovattieri”, seguita la destinazione, come nel seg. art. le dette rubbia 20 per solo pascolo godranno (sic) in tutto l’anno continuamente, tanto l’erbe d’estate, che d’inverno.” (Arch. del B. Governo. Allegato E, alla relazione di Luigi Tarani, revisore della Congragazione del B. Governo, 22 Agosto 1829, doc. 22).
Dall’allegato N. 3 alla relazione di F. Angelucci visitatore Apostolico, in data 2 Giugno 1824, risulta, che nel catasto al libro III pag. 574 N. 1049 si dice:
“Terreno dell’Ecc.ma Casa Borghese, Voc. Selva dei Cavalieri, confinante il quarto della Conca, Colle Lungo e Tenuta Monte Pizzuto, della quantità di rubbia 42, detto terreno è gravato dal continuo jus pascendi per il pascolo dei buoi aratori”. (Arch. del B. Governo. Miscell. II doc. 28).
Nello stesso documento vengono notati anche i beni del Comune, e fra quelli il quarto di Trentani (Catasto libro III pag. 577, N. 1053 doc. 10) della superficie di rubbia 27, gravato dello “jus lignandi” a favore dei cittadini, e “del continuo pascolo dell’erba a favore dei cittadini boattieri”; e così anche un terreno di rubbia 13, confinante colla macchia della Casa Borghese, e vigne dei particolari (Catasto, libro III pag. 578 N. 1054) era gravato “del jus pascendi a favore dei cittadini boattieri, sì d’estate che d’inverno”. (Arch. del B. Governo. Miscell. II Mentana, doc. 28).
Nel Catasto Piano dell’anno 1782, al libro I pag. 260, rileviamo, che una parte del “quarto dei Mancini”, una superficie di rubbia 15 macchiosa e sterposa, fosse gravata del “continuo jus pascendi” a favore dei bovattieri, per uso dei soli buoi aratori. (Catasto di Mentana Tom. I pag. 260, doc. 20).
Fra i verbali delle deliberazioni Consigliari del Comune di Mentana, resterà memorando quello della seduta del giorno 23 Giugno 1816.
Il Consiglio fu adunato in quella occasione per deliberare sopra una concordia, fra il popolo di Mentana ed il Principe D. Camillo Borghese.
Intervennero nell’atto 44 capi di famiglia. La concordia doveva basare sopra i seguenti capitoli:
1° Che la Casa Borghese accordasse rubbia 30 per pascolo.
2° Tutti i canoni dovuti dalla popolazione sarebbero stati ridotti a scudi 2, ogni cinque scudi, con patto che la tassa della dativa restasse a carico della popolazione.
3° Si dovevano conservare N. 500 piante di quercia nelle macchie di S.Giovanni e Trentani.
4° La somma dovuta al Principe Borghese per canoni arretrati, sarebbe stata diminuita di un terzo, ed il residuo da pagarsi a rate in più anni.
In corrispettivo la popolazione doveva rinunciare al diritto “del pascolo illimitato nel tenimento”, che godeva, in base all’atto di divisione dei beni fra Paolo e Giovanni Orsini, per volontà del loro padre Camillo Orsini, documento citato superiormente.
Doveva inoltre rinunciare al diritto di pascere la ghianda in tutto il tenimento, e così al diritto di poter tagliare la legna verde ( o fresca) in tutte le macchie, ed a quello di poter rompere i prati per seminarli.
Con ciò sarebbero rimasti in vigore gli usi civici, di poter fare la legna secca soltanto, il “pascolo promiscuo nell’estate”, come altresì lo spiciliegio nelle stoppie, ed altro a favore della popolazione.
Dopo una lunga discussione, fu approvata la transazione, con 47 voti favorevoli, ed uno contrario, (mentre dal verbale risultano soltanto “44 gli interventi” a quel Consiglio), e salvo poche modificazioni da concordarsi fra le parti. (Atto Consigliare 23 Giugno 1816).
L’istromento di transazione fu stipolato il 31 Agosto 1816, a rogito del notaio Camillo Serpetti.
Quell’atto fu firmato da “cinquantacinque cittadini capi di famiglia di Mentana” (sopra 63 capi di famiglia allora esistenti, come dall’atto Consigliare sopra citato) ed i possessori dei terreni canonati, furono rappresentati dall’arciprete D. Lorenzo Calonnio e da altri, come da procura inserita nell’atto.
In quella fu premessa una rinuncia a nome di tutti i presenti e futuri cittadini di Mentana a qualsiasi pretesa, per qualunque circostanza e per qualunque tempo.
Dobbiamo qui notare, per incidente, che in quel tempo (Anno 1816) “non si aveva un concetto esatto della essenza e natura degli usi civici”.
Seguivano nell’istromento quattro articoli, che riguardavano la questione dei canoni arretrati sopra i diversi fondi enfiteutici.
All’art. 6 fu convenuto, che il Principe Borghese doveva mantenere per pascolo sole rubbia 20 (mentre nel Consiglio si era affermato, che il Principe Borghese avrebbe “dato 30 rubbia”) a favore dei bovattieri nel quarto detto dei Dodici Apostoli, e da godersi per pascolo per tutto l’anno.
Furono assegnati 500 alberi di cerro o quercia nella macchia di Trentani o Selva dei Cavalieri.
Furono esonerate tutte le famiglie dal pagamento di bai 25 per titolo di guardia.
IL taglio della legna nelle macchie di Trentani o Selva dei Cavalieri fu riconosciuto di proprietà del Principe Borghese.
Il pascolo per “tutto l’anno” nelle macchie suddette, fu riservato ai buoi dei buvattieri.
I Prati concessi in enfiteusi, dovevano essere mantenuti in perpetuo a prato, senza facoltà di rompitura. “Tutte le macchie del territorio furono riconosciute libere da qualsiasi uso civico”.
Il pascolo invernile tanto nei quarti, quanto nei prati, venne dichiarato di spettanza del Principe Borghese, ed il pascolo d’estate doveva essere goduto promiscuamente col bestiame dei cittadini boattieri di Mentana, dal giorno 8 di Maggio al 29 Settembre di ogni anno. Nei prati il pascolo doveva cominciare dopo falciato il fieno.
La parte del tenimento di pieno dominio dal Principe Borghese, Quarto di Greppi e la Macchia di Gattaceca, fu esclusa dalla concordia e con ciò “fu dichiarata libera dal pascolo di estate”.Seguivano altri patti relativi alle spese, ed alla esecuzione della concordia. (Arch. del B. Governo, Posiz. Prot. Segr. N. 112. Allegato E, alla relazione di Luigi Tarani, doc. 22).
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 (Da pag. 36)
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PASCOLO PER IL BESTIAME
Dallo Statuto si rileva, che nel capitolo, nel quale vengono stabilite le condizioni per chiunque possedesse pecore e capre, che pagando una regalia alla Corte, “potesse far pascere il bestiame nei luoghi consueti”; da ciò si deve dedurre, che l’uso di pascolo per il bestiame minuto fosse esistente nel territorio di Mentana.
Nell’atto di divisione dei beni fra i fratelli Paolo e Giovanni Orsini, figli di Camillo, la parte di quel verbale, che si riferisce al pascolo per i bestiami di Mentana, fu “resa di pubblica ragione”, come risulta alla pag. 657, del protocollo Notarile, Atti Massa Antonio Matteo, di che abbiamo riferito nella relazione storica.
In quell’atto di divisione viene stabilito, che se gli abitanti di Mentana avessero aumentato i buoi, ambedue i fratelli Orsini insieme (comuniter) avrebbero dovuto provvedere, come dicemmo, riferendo sul pascolo per i buoi.
Ma la convenzione soggiungeva, che se fosse stato necessario di dare i pascoli per le vacche e per gli altri “animali minuti, pecore, capre, suini” spettanti agli abitanti del castello di Mentana, che i sopraddetti fratelli, parimenti con larghezza, e ciascuno di essi spontaneamente nello stesso modo, avrebbe dovuto somministrare i pascoli necessari.
“Tale dichiarazione ampia e senza limiti, consacra in modo indiscutibile il diritto statutario dei Mentanesi, di poter far pascere qualsiasi specie di bestiame, tanto e quanto ne posseggono nell’intero territorio”. (Atti del Not. Massa Antonio Matteo, Arch. Cap. Vol. 464 pag. 661, doc. 2).
Eguale diritto statutario venne confermato chiaramente nella deliberazione del Consiglio Comunale, nel giorno 27 Settembre dell’anno 1590.
Fabio e Virginio Orsini signori di Mentana, in quell’anno, avevano fatto pubblicare un bando, che proibiva il pascolo dei bestiami nel territorio di Mentana, tanto nei quarti di proprietà del Comune, quanto negli altri quarti, che vengono denominate tenute.
Il Consiglio deliberò, che si pregassero i signori Orsini, a non voler togliere il diritto (“ci vogli togliere il nostro”). Che se gli Orsini avessero persistito nel rifiuto, e non avessero permesso di pascere “secondo il solito”, che si fossero sperimentate le ragioni legali.
Intanto, però, “i buoi e le altre bestie dovessero pascolare secondo il solito”. (Deliberaz. Cons. 27 Settembre 1590).
Dal verbale del Consiglio, del giorno 8 Gennaio 1591, apparisce, che gli Orsini non abbiano desistito totalmente dalla loro violenza, in quanto il loro fattore chiamato Giovanni Battista (?), aveva intimato per parte dei Signori di Mentana, che si dovessero togliere da Monte Pizzuto, tutte le bestie, e che altresì era stato comandato, che un guardiano dovesse sorvegliare l’esecuzione di tale ordine.
Il Consiglio decise, che i Massari si recassero a Roma, a pregare i Signori Orsini, che non volessero levare “quello che era stato sempre di solito di godere a Mentana”.
Che se i Massari non fossero riusciti nel mandato, avessero interposto qualche persona autorevole, per ottenere quello che si domandava, e nel caso che il Consiglio si dovesse nuovamente riunire. (Atto Cons. 8 Gennaio 1591):
Anche da un verbale dello stesso Consiglio, in data 17 Settembre 1606, apparisce, che gli abitanti di Mentana non desistevano dal domandare al Marchese Peretti, che in quel tempo era già signore del luogo, perché provvedesse il necessario pascolo, tanto per i buoi quanto per le vacche, e somministrasse il grano da seme.
I Massari di Mentana erano incaricati di fare al Marchese Peretti la domanda suespressa. (Deliberaz. Cons. 17 Settembre 1606).
Da un documento, del giorno 11 Luglio 1782, per la superficie e valore del terratico della terra baronale di Mentana, si rileva, che il valore “dello jus pascendi” a favore del Barone, ammontava a scudi 4000, mentre quello del Comune di Mentana era “valutato scudi 8500”.
Si deve considerare che la possidenza del principe Borghese, nell’anno 1782, ammontava ad un estimo di “scudi 119.590,02 sopra rubbia 1556” di possidenza, mentre quella dei beni Comunali giungeva appena a “scudi 4537 sopra a rubbia 86” di proprietà. In conseguenza è evidente che l’uso civico di pascolo si “esercitasse sull’intera proprietà del Principe Borghese”. (Arch. del B. Governo, Catasto, doc. 12).
Dal Catasto di Mentana, che fu redatto nell’anno 1782, ed approvato legalmente il giorno 21 Luglio anno suddetto dalle autorità locali, con atto del Segret. Cam. Taliani, risulta, che i seguenti quarti, denunziati con assegna in filza al N. 134, nei tre tomi dello stesso Catasto, ai relativi numeri progressivi per le singole partite, sono “tutti gravati dall’onere civico dello spiciliegio”, come da quello del pascolo estivo, comune ai bestiami degli abitanti di Mentana e del principe Borghese, allora proprietario del tenimento.
I vari quarti od apprezzamenti di terreno, gravati come sopra, sono quelli in Voc. Carnale – Fonte Lettiga – Forni – Formelluccio – Mancini – altra parte dello stesso quarto – Mezzaluna – Torricella – Monte de’ Porci – S.Lucia – Tor Lupara – Quarto Tobaldini – Valle Cavallara – Conca, quali uniti comprendono una superficie superiore a 1500 rubbia (Ufficio del Catasto Roma, Catasto di Mentana Anno 1782, doc. 10).
Dal preventivo delle entrate privilegiate, fatto nell’anno 1788, si rileva, che nel bilancio era inscritta una somma, che rappresentava quello, che si ricavava dalla vendita del taglio della legna, e dall’affitto del pascolo, che “veniva ceduto eventualmente dalla popolazione di Mentana per supplire alle spese annue privilegiate”, come già si era deciso con una deliberazione Consigliare, del 20 Settembre 1767. (Arch. del B. Governo. Miscell. II Pos. N. 11, doc. 14).
Nell’anno 1804 ai 14 di Giugno, il Comune di Mentana fu autorizzato a contrarre un affitto dei beni comunali coi fratelli Santucci.
Dall’elenco dei beni spettanti come sopra, risulta che oltre la tenuta di Monte Pizzuto, si consegnò una macchia di rubbia 37 in cui poteva essere esercitato il pascolo coi bestiami della popolazione. (Arch. del B. Governo. Miscell. II Pos. N. 11, doc. 16).
Un ordine espresso dato dalla Congregazione del Buon Governo, nel giorno 22 Febbraio dell’anno 1806, dice, che la Congregazione avendo preso in esame quanto era stato nuovamente dedotto dai possessori di bestiame in Mentana, sulla pertinenza di Monte Pizzuto, aveva creduto di decidere, che dovessero essere osservati gli ordini dati con lettera del giorno 7 Maggio 1803; e quindi si dovesse dare esecuzione alle istruzioni comandate, fermo restando il diritto dello “spicilegio” per i poveri, e l’altro di poter pascolare “tanto d’estate quanto d’inverno”, a favore dei possessori di bestiame, come risultava anche dal Catasto Piano del 1782 (Arch. del B. Governo. Miscell. II Pos. N. 11, doc. 9).
Nelle tabelle preventive, ossia degli stati di previsione per le rendite e spese Comunali, redatte per l’anno 1815, si nota, che il pascolo è allibrato per un “valore catastale di scudi 8500”, come già notammo, per l’estimo relativo al Comune, e detto pascolo era goduto dai vari bestiami dei diversi possessori. (Arch. del B. Governo. Tabelle preventive, Stato dei Beni, doc. 12 e doc. 20).
Nell’adunanza Consigliare, del giorno 11 Febbraio 1816, fu deplorato che i cavalli, i buoi e le bestie vaccine dei forastieri pascolassero nel territorio di Mentana, specialmente, nei luoghi a ciò destinati, e così avveniva a “Porticella, alla Muracciola, alla Ringara e Rocca”, quali pascoli erano destinati per consuetudine per le bestie deperite.
Infatti si può constatare nel Catasto dell’anno 1782, alla pag. 454 del libro III, che tanto la località detta la “Porticella”, e le altre del “Carascone” e dello “Spanditore”, non che l’altro terreno della “contrada Rocca” erano destinati “al pascolo continuo delle bestie casalinghe” dei cittadini di Mentana, ed anche per deposito d’immondizie, e per luoghi per spandere i panni lavati. (Catasto di Mentana libro III pag. 454 doc. 10).
Un estratto del Catasto, che si conservava nell’Ufficio del Vice Governatore di Mentana nell’anno 1824, e che era relativo a tutti i diritti dei boattieri e possidenti dei bestiami ed era stato desunto dal Catasto di Mentana (allora conservato nella Cancelleria del Censo a Palombara, ed ora nell’Ufficio del Catasto in Roma), prova che quasi tutti “i terreni e macchie della Casa Borghese erano gravati dell’onere del pascolo promiscuo dei bestiami spettanti agli abitanti”, ed a quelli del Principe Borghese. (Arch. del B. Governo. Mentana, Miscell. II doc. 28).
Nell’anno 1807, la Congregazione del Buon Governo alienò a favore di Francesco Chichi, da Roma, il quarto di Monte Pizzuto per la somma di scudi 3.872,50. Su detto quarto il popolo di Mentana aveva il diritto di far pascere il bestiame, tanto “nelle erbe d’inverno, quanto in quelle d’estate, quale diritto fu espresso” nell’istromento della vendita, atti Nardi notaio della Camera, 16 Settembre 1807.
Il Chichi appena aveva fatto il suddetto acquisto, lo cedette a Giov. Baronci, che subito tentò di inibire il pascolo nel quarto sopraddetto.
I Mentanesi nell’anno 1808, convennero in giudizio il Baronci, che avendo riconosciuto di non poter sostenere la lite, propose ad alcuni possidenti di bestiame, (non esistendo in quel tempo la Università dei boattieri) di prendere in affitto il pascolo annuale, ciò che ottenne da “soli otto proprietari di bestiame”, per la corrisposta annua di scudi 50.
L’affitto fu concluso per un dodicennio con patto di rinnovo.
E’ da notarsi che l’intero quarto di Monte Pizzuto, aveva la superficie complessiva di rubbia 48, ma soltanto la metà dello stesso quarto, ossiano rubbia 24, erano soggette al pascolo.
La Congregazione Economica del Buon Governo non approvò il contratto sopraddetto, e delegò il perito agrimensore Giansanti per redigere la perizia del valore del pascolo, che risultò di scudi 72 annui. Su tale base fu aperta un’asta per un nuovo affitto, nel giorno 15 Ottobre 1824, ma andò deserta.
La Congregazione Economica allora credette giusto di accettare l’offerta del Baronci per l’annua corrisposta di scudi 72, e per un contratto duraturo per anni 18.
Ma il Baronci subito rinnovò la domanda, per avere il fondo piuttosto in enfiteusi perpetuo, e nella sua offerta si espresse colle seguenti parole “e così assicurare a chi vi ha il diritto di pascere, un annuo canone”.
La Congregazione Economica ordinò, che la domanda fosse rimessa al Segretario del Pontefice, che nella sua udienza del 1° Giugno 1825, emanò un rescritto, col quale fu concesso al Baronci la facoltà di “poter stipulare un contratto enfiteutico” per il godimento soltanto del pascolo d’inverno e che l’enfiteusi fosse perpetuo.
Con tali patti fu stipolato l’istromento enfiteutico da Vincenzo Petti, notaio della Camera Apostolica (Arch. del B. Governo. Miscell. I, Mentana, doc. 28).
Come già abbiamo notato precedentemente, nell’anno 1816, nel Consiglio tenuto il giorno 23 Giugno dell’anno suddetto, furono discussi i diversi capitoli, che dovevano formare l’atto di concordia fra gli abitanti di Mentana, e la Casa Borghese proprietaria del tenimento.
Fra le varie questioni eravi quella del pascolo, ma in compenso di quello, che la Casa Borghese credette di riconoscere per diritto ai Mentanesi, fu proposto che questi dovessero “rinunciare al diritto del pascolo illimitato nel tenimento”, e che godevano in base all’atto di divisione dei beni fra Paolo e Giovanni Orsini, per volontà del loro padre Camillo Orsini.
Doveva restare in vigore soltanto il pascolo nell’estate, da godersi promiscuamente fra i bestiami dei Mentanesi, e quelli dell’affittuario.
E nell’istromento di concordia, stipolato il 31 Agosto 1816, in atti di Camillo Serpetti notaio, fu convenuto, che il pascolo invernile tanto nei quarti, quanto nei prati fosse d’assoluta proprietà del Principe Borghese, e che il pascolo d’estate fosse goduto promiscuamente, come erasi deliberato dal Consiglio Comunale. (Arch. del B. Governo. Posiz. Segn. 112 allegato E, alla relazione di Luigi Tarani, doc. 22).
Nella relazione del Visitatore Apostolico Pietro Fausto Angelucci, fatta per una ispezione nel Comune di Mentana nell’anno 1824, viene confermato quanto è stato detto in riguardo al quarto di Monte Pizzuto, e nella stessa relazione si afferma, che il bestiame di Mentana godeva anco il diritto “di pascere nelle macchie” denominate Trentani, Selva dei Cavalieri e Pianelle, proprietà del Principe Borghese. (Arch. del B. Governo. Relazione Angelucci, doc. 29).
Che il popolo avesse il diritto di poter pascere il bestiame domestico nei piccoli apprezzamenti di terreno, prossimi all’abitato di Mentana, viene anche provato da un atto testimoniale, del giorno 10 Maggio 1829, dal quale rileviamo, che siccome alcuno di Mentana aveva preteso di far pascere dalle proprie pecore l’apprezzamento in Voc. Rocca Porticella, ed in alcuni altri piccoli terreni, che menzionammo superiormente, i dichiaranti attestarono che quei luoghi erano destinati per il pascolo dei cavalli domestici, somari e maiali dei terrazzani. (Arch. del B. Governo. Mentana, allegato V, lett. E, alla relazione dell’arciprete Vincenzo Calvari, doc. 35).
Una petizione del Clero e del popolo di Mentana, diretta al Pontefice Pio VIII, nel giorno 30 Maggio 1829, reclama, perché volessero provvedere allo stato finanziario della Pubblica Amministrazione di Mentana di quel tempo, coll’ordinare, che s’imponesse una tassa su tutte le bestie vaccine, “che godevano tutto il territorio”. (Arch. del B. Governo. Mentana, Miscell. Posiz. Prot. N. 112, doc. 36).
Una relazione fatta dal Revisore della Congregazione del Buon Governo Luigi Tarani, in data 22 Agosto, inviato a Mentana in seguito a reclami, constatava che alcuno dei proprietari avesse consumato colle proprie pecore tutte le erbe assegnate al mantenimento dei maiali ed asini. Infatti vi erano vari terreni, sui quali il bestiame del popolo Mentanese aveva il diritto di pascolo, specialmente per i buoi aratori, come erano le 20 rubbia del quarto degli Apostoli e le rubbia 42 della Selva dei Cavalieri, oltre gli altri pascoli per il bestiame diverso. (Arch. del B. Governo. Mentana, Posiz. Prot. Segreto N. 112, doc. 37).
Nello stato dei beni del Comune di Mentana si nota, che la macchia in contrada Trentani fosse soggetta al pascolo del bestiame dei Terrazzani, e così ancora quella in Voc. S.Giovanni, ossia L’Immaginella, nel quarto del sopraddetto. (Arch. del B. Governo. Stato dei Beni di Mentana, doc. 38).
Nell’anno 1855, il Principe Borghese fece domanda al Presidente di Roma e Comarca di voler affrancare dalla servitù di pascolo il tenimento di Mentana, per il diritto concesso ai proprietari dalla Notificazione 29 Dicembre 1849.
Il Comune si oppose a tale domanda, ma una Sentenza della Congregazione Governativa, del 29 Agosto 1857, respinse le eccezioni del Comune. La causa fu discussa anche in appello, avanti la Commissione per il contenzioso amministrativo presso il Consiglio di Stato, ed una sentenza del 13 Aprile 1859, confermò la decisione della Congregazione Governativa.
Furono nominati i periti dalle parti, che nel giorno, 18 Maggio 1862, presentarono la loro relazione, assegnando al Comune il quarto di Conca, come indennizzo in natura.
Il Comune ricorse nuovamente al Contenzioso amministrativo, poiché ritenne, che il quarto di Conca fosse distante da Mentana, e che avesse una giacitura incomoda e scabrosa per la popolazione.
Propose invece, che fosse assegnata una parte del quarto dell Vignole e Tabaldini, ed a sostegno del ricorso, presentò una perizia fatta compilare appositamente.
Intanto che si svolgeva il reclamo, il Principe Borghese fece una nuova domanda per ottenere l’affrancazione anche delle macchie poste nel tenimento, nel Voc. Trentani, Selva dei Cavalieri e pascolare dei Dodici Apostoli, esibendo un compenso in natura e reclamando anche la nomina dei periti.
La Congregazione Governativa, con una sua sentenza del 17 Aprile 1863, deputò il perito D. Antonio Marucchi, perché dopo l’accesso sopra luogo, e avendo riguardo alle cose dedotte, riferisse specialmente sulla perizia prodotta dal Comune.
Il perito Marucchi concluse nella sua relazione, che conveniva in ciò, che dalla perizia del Comune si deuceva sulle condizioni topografiche, e sulla giacitura incomoda del quarto di Conca, e che la perizia fatta dai due primi periti, quello del Principe e del Comune, non fosse coerente alla domanda d’affrancazione fatta dallo stesso Principe, che cioè il quarto da darsi in compenso dovesse essere scelto con “reciproca intelligenza”, e che la domanda così redatta, dovesse ritenersi come base fondamentale della volontà del Principe stesso.
Il perito Marucchi, col suo autorevole intervento fra le parti, si adoperò insistentemente perché il Principe Borghese rinunciasse alla seconda domanda di affrancazione delle macchie. Dopo lunghe trattative, finalmente il Principe Borghese assentì a rinunciare alla seconda domanda, a condizione, che il Comune “accettasse il quarto di Conca, e così avrebbe potuto continuare a godere le macchie tanto per il pascolo, quanto per gli altri diritti, come in quell’epoca, come per il passato”.
“Che se in tempo avvenire il Principe Borghese avesse voluto affrancare le macchie, in tal caso la indennità in natura dovesse essere sostituita con una porzione del quarto Tobaldini, lasciando quello di Conca”; a tale effetto dovessero essere determinati i confini fin da quel tempo, perché tutto fosse definito con accordo fra le parti.
Il Principe si obbligava altresì di sborsare una somma da stabilirsi, a favore del Comune, in compenso delle spese della causa, alla quale le parti dovevano rinunciare.
Le proposte furono riferite e discusse nel Consiglio Municipale, riunitosi nel giorno 3 Aprile 1864, e la concordia fum approvata a maggioranza di voti.
La risoluzione consigliare fu vistata dal Delegato di Roma e Comarca, nel giorno 10 Aprile 1864.
Il perito Marucchi unitamente all’agronomo Balzarini, in rappresentanza del Principe Borghese, recatisi sopra luogo, delimitarono nel quarto Tobaldini la porzione da sostituirsi al quarto di Conca, nel caso che in seguito di tempo il Principe Borghese avesse chiesta ed ottenuta l’affrancazione delle macchie.
Furono rilevate le piante necessarie, e fu fatto analogo verbale.
Il perito Marucchi avendo fatto redigere, come da incarico avuto, la minuta dell’istrumento di transazione, questa fu sottoposta al Consiglio nell’adunanza del 28 Agosto 1864, e fu approvata con alcune modificazioni.
Ciò non fu accettato dal Principe Borghese, ed allora il Consiglio, nel giorno 23 Ottobre dello stesso anno, approvò puramente e semplicemente la proposta minuta del Principe, che volle che fossero soppresse le parole “… e di altre servitù” come era stato proposto in riguardo al godimento del Comune per le macchie.
Esaurite così le lunghe pratiche, “perdurate nel novennio”, nel giorno 28 Dicembre dell’anno 1964, fu stipulato l’istromento di affrancazione in base alle condizioni che abbiamo riferite, ed il Principe Borghese nell’atto della sottoscrizione fece pagare a Ciro Marini, segretario e procuratore del Comune di Mentana, la somma di scudi 700, a compenso delle spese, e per la quale fu emessa finale quietanza.
L’istromento di affrancazione dell’anno 1864 a nostro avviso, ha lo stesso valore della concordia dell’anno 1816.
Gli amministratori del Comune di Mentana, nell’assoluta ignoranza dell’entità e valore degli usi civici, a favore dei propri amministratori credettero nella loro “semplicità d’animo”, di salvaguardarne gli interessi, facendo ampia dedizione dei diritti al proprietario di Mentana, con evidente danno dei loro concittadini, e “specialmente dei loro posteri!!”.
Esprimiamo il nostro parere, che l’uso civico di pascolo non si potesse affrancare, non ostante la Notificazione Pontificia del 29 Dicembre 1849, che pure aveva forza di legge, giacchè i Mentanesi erano nel pieno diritto di poter aumentare illimitatamente il numero dei loro bestiami sì grossi che minuti, come era previsto dal loro diritto Statutario e dovevano essere provveduti del necessario pascolo.
Anche l’atto di divisione fra i figli di Camillo Orsini, del 13 Dicembre 1552, riferito superiormente, dimostra che i proprietari del tenimento avessero assunto l’obbligo esplicito, di dover aumentare il pascolo per il bestiame grosso, ed anche per quello minuto, fino alla quantità necessaria per il bisogno, e tutto ciò significa “l’onere non avesse un limite fisso”.
Al contrario l’affrancazione fu compiuta assegnando un “compenso limitato ed immutabile”.
L’istrumento di affrncazione parla sempre di “pascolo in genere”, senza specificare se siasi tenuto conto del “pascolo continuo” per i buoi aratori, quale non poteva essere affrancato, in quanto “simile uso civico non può essere separato da quello della semina”.
Infine tutti gli altri usi civici di diversa natura, non essendo stati affrancati, restano tuttora in pieno vigore per il loro diritto ed esercizio.
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(Da pag. 47)
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USO CIVICO DI LEGNARE
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L’uso civico di legnare per gli abitanti di Mentana, è stato riconosciuto dalle disposizioni Statuarie, approvate da Camillo Orsini nell’anno 1552.
Nel libro IX, “dei danni dati”, al capitolo sulla qualità della legna, che si poteva tagliare per uso dei terrazzani, fu stabilito, che “qualsiasi abitante avrebbe potuto fare la legna di qualunque specie per uso della propria famiglia.
Chiunque poi era proprietario di vigne ed orti, aveva la facoltà di poter esercitare l’industria della legna, anche inviandola a Roma, e facendola trasportare dalle proprie bestie da soma, a condizione però che non avesse mai tagliato alberi di quercia o piccole pedagne.
Chiunque avesse contravvenuto al patto, tagliando tale specie di legna, avrebbe dovuto pagare due carlini per ciascuna pianta: e se alcun, che non fosse stato possidente, avesse spedita la legna a Roma, doveva essere multato di un carlino per ciascuna soma di legna spedita”. (Statuto di Mentana, doc. 1).
Nell’anno 1589 i periti agrimensori Giovanni Fontana, Prospero Rocchi, Bernardino Valperga, ed Antonio Ilarione, furono deputati per ragione di divisione fra coeredi della famiglia Orsini, a fare la stima, e riferire sul valore del Castello e territorio di Mentana e di tutta la possidenza rustica ed urbana, e fra le cose periziarono anche 300 rubbia di selva o macchia, che si tagliavano per “legna rustica”, e le valutarono scudi 80 al rubbio.
Nel caso poi che le dette macchie fossero mantenute unite alla giurisdizione, ossia al feudo, stabilirono, che il valore fosse di scudi 40 al rubbio, intendendo con ciò di valutare l’uso civico di legnare. (Arch. di Stato, Roma, Castri Numenti Instrum., doc. 5).
In un pubblico Consiglio tenuto l’anno 1590 nel 1° Gennaio, fu partecipato l’ordine dei fratelli Fabio e Virginio Orsini, proscritto con bando, che non si potesse tagliare alcuna quercia o pedagnola.
Il Consiglio deliberò, che i Massari andassero a Roma per pregare i signori Orsini, “che non volessero levare quello, che era stato sempre solito a Mentana di godere”: che se detti Massari non avessero potuto ottenere quanto sopra, avessero interposto qualche altra persona in proposito, e che se non ostante ciò, non avessero potuto conseguire lo scopo, si dovesse nuovamente indire un pubblico Consiglio. (Deliberaz. Cons. 8 Gennaio 1591).
Un successivo bando di Filippo Ravenna, fattore dei signori Orsini, nel mese di Settembre 1591, proibì assolutamente ad ognuno di fare alcuna specie di legna nel territorio di Mentana.
Il Consiglio convocato nel giorno 21 del mese sopraddetto, deliberò “che fosse revocato detto bando, e che si esercitasse l’uso di far legna sopra tutto il territorio”, e specialmente nella Selva di Trentani, “che ci facci come roba nostra” essendo proprietà del Comune, e tutto ciò era conforme a quanto era stato convenuto negli Statuti (Deliberaz. Cons. 21 Settembre 1591).
Ma i signori Orsini perdurarono nella loro prepotenza, tanto, che il loro agente Andrea Moriconi, la sera del 14 Dicembre dell’anno sopraddetto, sequestrò due some di legna di pedagna ad alcuni terrazzani, che l’avevano tagliata nella macchia Trentani ed anche fece imprigionare gli uomini, che conducevano le bestie da soma.
Fu subito riunito il Consiglio, nel giorno seguente, e fu risoluto che si proseguisse ad esercitare il diritto, secondo quanto prescrivevano gli Statuti, ed il cosidetto “Codicillo” di Camillo Orsini, e che intanto i Massari si recassero a Roma, per conferire con Fabio Orsini. (Deliberaz. Cons. 15 Dic. 1591).
L’Orsini diresse allora una lettera ai Massari di Mentana scrivendo, che se la popolazione avesse voluto esercitare l’uso di legnare ne avesse fatto domanda, poiché esso l’avrebbe concesso, secondo quanto avrebbe fatto per il passato.
Fu data lettura della suddetta lettera nell’adunanza Consigliare del 17 Dicembre dello stesso anno.
Il Consiglio deliberò nuovamente d’inviare due Massari a Roma, per pregare Fabio Orsini, che volesse riconfermare quanto stabiliva lo Statuto di Camillo Orsini, che se il detto Fabio non avesse accettato ciò, i Massari rispondessero che il Comune, sebbene a malavoglia, sarebbe stato costretto a deputare una commissione popolare, per venire a Roma presso il Pontefice Innocenzo IX (che regnò soltanto due mesi, dal 29 Ottobre al 29 Dicembre 1591) a reclamare per quanto sopra, e specialmente per provare che la macchia di Trentani era d’assoluta proprietà del Comune. (Deliberazione Consigliare 17 Dicembre 1591).
Il diritto di legnare venne anche affermato pochi anni dopo dallo stesso Consiglio Comunale nella seduta del giorno 18 Giugno 1595, quandochè deliberò che si dovesse esercitare il diritto secondo il solito, conforme allo Statuto ed al Codicillo (sempre così chiamato) ossia all’atto di divisione fra Paolo e Giovanni Orsini, che anzi il Comune affermò il suo diritto, non solo sulla macchia di Trentani, ma anco sulla Selva dei Cavalieri. (Deliberaz. Cons. 18 Giugno 1595.
Intanto il Castello ed il tenimento di Mentana erano stati venduti dai fratelli Fabio e Virginio Orsini al marchese Michele Peretti nell’anno 1594, e la vertenza per l’uso civico di legnare restava tuttora sospesa, finchè nel giorno 10 Settembre 1595, fu riunito il Consiglio generale, per deputare una commissione di 8 o 10 uomini, perché si portassero a Roma a pregare il Cardinale di Montalto, Francesco Peretti, figlio del marchese Michele, affinchè desistesse dalla opposizione, e nel caso pregasse il Cardinal di Camerino, affinchè s’interponesse per ottenere quello che si desiderava.
Tale mezzo conciliativo fu anche accettato dai Massari, per non pregiudicare il diritto acquisito dallo Statuto e dalla consuetudine. (Deliberaz. Cons. 10 Settembre 1595).
Sembra che il marchese Peretti, ad esempio degli Orsini, persistesse nell’ostacolare ed impedire ai Mentanesi il libero esercizio del loro uso civico di legnare, che anzi per raggiungere lo scopo volle appropriarsi della legna in questione, e nell’anno 1598, inviò alcuni tagliatori per recidere il bosco di Trentani, ed in quella occasione si disse, perché intendeva di servirsi della legna per le fornaci della calce.
Il Consiglio nell’adunanza del giorno 21 Maggio 1596, deliberò, che due deputati si recassero a Roma per scegliere un procuratore, informandolo di quanto era necessario per la difesa degli abitanti. (Delib. Cons. 21 Maggio 1598).
Poi nuovamente si riunì nel giorno 21 Dicembre dell’anno suddetto, poiché il marchese Peretti aveva inviato a Mentana un suo familiare Mons. Guerra, per indurre il Comune a rilasciare una procura atta a far decidere la causa per il taglio della legna di Trentani, Selva dei Cavalieri e tutte le costiere di Monte Gobbo.
Il Consiglio decise, su proposta di Giacomo Savelli, d’inviare a Roma quali procuratori Simone di Nannone e Terenzio del q. Lucio, i quali dovessero provvedere alla spedizione della causa (Atto Cons. 21 Dicembra 1598).
Dal verbale di un successivo Consiglio, tenuto il giorno 2 Maggio 1599, apparisce chiaro, che non ostante la causa introdotta fra il Comune ed il marchese Peretti, questi nella stagione 1598-99 fece eseguire il taglio delle macchie di Trentani, Selva dei Cavalieri e delle costiere di Monte Gobbo.
Infatti i Massari riferirono nel Consiglio, che i barocciai della legna da Mentana al Porto del Grillo sul Tevere, entro il territorio di Monte Rotondo, tutte le sere, quando che tralasciavano il lavoro, portavano sui carri una quantità di legna verde, per loro uso a Monte Rotondo, ove probabilmente dimoravano.
Nei tempi passati per il traffico della legna si usava di condurla alla riva del Tevere, e da quello colle barche si trasportava a Roma.
Il procuratore della Comunità fece osservare nell’interesse della causa, che pendente la lite, non era permesso di esportare la legna fuori dal territorio.
Il Consiglio deliberò, che i Massari impedissero, che alcuno portasse la legna a Monte Rotondo, e che subito si recasse a Roma, per reclamare personalmente al regnante Pontefice Clemente VIII. (Atto Cons. 2 Maggio 1599).
Intanto Bartolomeo Petrucci, agente generale del marchese Peretti, scrisse una lettera al Podestà di Mentana, lagnandosi che i terrazzani continuassero non solo a far legna, ma osassero anche tagliare le pedagnole, ciò che non era avvenuto nel passato, poiché mai era stato in uso.
In conseguenza ordinava allo stesso Podestà, che facesse sequestrare la legna, e punisse tutti coloro, che avessero tagliato le pedagne, come era già stato fatto nel passato.
Tutto ciò fu riferito ai Consiglieri, nell’adunanza del giorno 29 Settembre 1599, ed il Consiglio deliberò, che si dovesse far ricorso direttamente ai signori marchesi Peretti, ovvero alla marchesa Camilla Peretti e che era necessario di far conoscere a tutti, quello che era disposto dagli Statuti.
Ma intanto per non pregiudicare il diritto alla Comunità, e per mantenere la consuetudine, fu deciso di continuare l’esercizio di legnare. (Atto Cons. 27 Settembre 1599).
Dal verbale del Consiglio Comunale, tenuto il giorno 15 Agosto 1766, rileviamo, che anche nella macchia in Vocabolo “Cianfrone”, v’era il diritto di legnare, e che per coadiuvare l’Amministrazione Comunale nel pagamento delle tasse, fu proposto in quell’adunanza di vendere il taglio della macchia sopraddetta, onde col ritratto si potesse far fronte agli impegni del Comune. (Atto Cons. 15 Agosto 1766. Archivio del Buon Governo. Mentana, Miscell. II, N. 11 di Posiz. doc. 15).
Anche nell’anno 1773 fu devoluto a beneficio del Comune il prezzo delle macchie di S. Giovanni e Trentani, riservandone però una parte per l’uso della popolazione, ciò che fu approvato all’unanimità dei voti, come risulta dalla deliberazione Consigliare del giorno 3 Maggio 1773. (Atto Consigliare 3 Maggio 1773).
Dal Catasto di Mentana, redatto nell’anno 1782, risulta, che il terreno macchioso di Rubbia 13, che fa parte del quarto di Trentani, fosse gravato dallo “jus lignandi” a favore dei cittadini di Mentana. (Catasto di Mentana, anno 1782. Estratto del doc. Arch. del B. Governo. Mentana, Misc. II, Pos. N. 11, doc. 13).
Dallo stato di entrata ed uscita annua dalla Cassa Camerale Comunicativa e Privilegiata, così allora nominata, nella parte delle entrate privilegiate, notiamo il prodotto che si ricavava dallo “jus lignandi et pascendi”, ceduto dal popolo (in seguito a deliberazioni consigliari, come osservammo) per supplire ai pesi annui privilegiati, secondo la risoluzione Consigliare del giorno 20 Settembre 1767, che nel documento venne riprodotta in copia, e si riferisce alla vendita del taglio della macchia detta Cianfrone, nella quale il popolo esercitava l’uso civico di legnare. (Archivio del B. Governo. Mentana, Misc. II, Pos. N. 11, doc. 14, ed Atto Consigliare del giorno 30 Settembre 1767).
Dal verbale del Consiglio Comunale tenuto il giorno 10 Ottobre 1790, risulta, che nel Novembre successivo, cadeva il taglio a carbone della macchia in vocabolo “Cianfrone” di circa cinque rubbia di superficie, che apparteneva liberamente alla popolazione per il diritto di legnare, ed apparisce dal verbale, che non fosse occorsa sempre tutta per i bisogni dei terrazzani, in quanto esercitavano il loro diritto soltanto sopra la parte residuale della macchia suddetta.
Fu deliberato di vendere il taglio sopraddetto per far fronte alle spese di restauro della Chiesa di S.Maria della Pietà, e per la festa della Incoronazione della Immagine della Madonna, venerata in quel Santuario. (Atto Consigliare 10 Ottobre 1790).
(S.Maria della Pietà, ora Chiesa di S.Nicola, era la Cappella interna all’Ospedale.)
Con decisione parimenti del Consiglio, presa nel giorno 18 Agosto 1801, fu stabilito che per far fronte al deficit (smanco) di scudi 80 da pagarsi per le tasse sopra il valore degli usi civici di pascolo e legnare, l’importo della tassa per pascolo fosse ripartita sul bestiame, e quella per il legnatico fosse divisa per ciascuna famiglia, (per ogni fuoco). (Atto Cons. 18 Agosto 1801).
Un atto testimoniale, in data 25 Gennaio 1810, prova, che la macchia in vocabolo “Cianfroni”, apparteneva al Comune, e che la popolazione avesse il diritto di tagliare la legna verde o secca, e “di farci anco il carbone per proprio uso”.
L’intero apprezzamento macchioso si componeva di una superficie di cinque rubbia, che per deliberazioni Consigliari, per tre successivi turni di taglio, fu venduta per supplire alle urgenze del Comune; la parte residuale della macchia di circa rubbia 7, era una macchia vergine.
L’uso civico di legnare in detto bosco fu sempre rispettato dalle autorità governative.
L’atto sopraddetto fu redatto, perché il Governo francese aveva stabilito di far eseguire la vendita delle macchie in vocabolo S.Giovanni, Trentani e quella di Cianfrone, che volgarmente dicevasi “macchia del popolo”. (Arch. del B. Governo. Mentana, Miscell. I, Pos. N. 20314. Prot. Gen. Ristretto Catastale, I. Periodo Quinquennio francese, Pos. N. 27, doc. 18).
Un altro atto testimoniale dello stesso anno, redatto il giorno 12 Febbraio, mette in rilievo, che quando si eseguivano i tagli delle macchie spettanti al Principe Borghese, la “punta della legna residuava sempre a favore del popolo di Mentana”, che anzi era cosa notoria, che i passati Principi Borghesi, nei contratti di affitto della tenuta, avessero sempre riservati i diritti popolari, ossia quello di pascolo, di legnare, di far le cese, e di raccogliere la punta della legna ed altro.
E tali diritti erano stati sempre goduti dalla popolazione, che anzi più volte i Principi Borghesi avevano difeso i terrazzani contro le pretese degli affittuari. E così era pubblica tradizione a Mentana, che le macchie di proprietà della Casa Borghese, in “tempo antico avessero appartenuto al Comune”, come i testi riferivano di avere inteso dire dagli anziani del paese. (Arch. del B. Governo. Mentana, Miscell. I, Pos. N. 20314. Prot. Gen. Ristretto Catastale, I. Periodo Quinquennio francese, Pos. N. 27, doc. 19).
Apparisce dall’atto Consigliare, del giorno 12 Novembre dell’anno 1811, che tuttora la macchia Cianfrone fosse stata conservata in proprietà del Comune, poiché il Consiglio approvò la vendita di quel taglio, affine di avere una somma disponibile per far fronte alle spese per sostenere i diritti statutari, in considerazione della pubblicazione della legge 24 Luglio 1809, che aveva abolito tutti i diritti feudali. (Atto Cons. 12 Novembre 1811).
Nell’adunanza Consigliare, del giorno 23 Giugno 1816, come già fu riferito precedentemente, furono discusse ed esaminate le basi per una concordia fra il popolo di Mentana ed il Principe Borghese, proprietario di quel tenimento.
Fu proposto ed approvato, che in correspettivo di ciò che il Principe Borghese riconosceva come soggetto all’uso civico, si dovesse rinunciare oltre ai vari diritti, anco a quelli speciali, che il popolo Mentanese aveva, come uso insito nella sua vita, quello cioè “di poter tagliare la legna verde” (fresca) in tutte le macchie del tenimento, anche per fare attrezzi da lavoro, come esamineremo in seguito.
Invece fu proposto ed approvato, che si potesse tagliare soltanto le “legna secche”.
Così nell’istrumento di transazione, stipolato in atti del notaio Camillo Serpetti, fu convenuto, che tutte le macchie del territorio fossero riconosciute libere da qualsiasi uso civico. (Arch. del B. Governo. Pos. Prov. Segr. N. 112, allegato E, alla relazione di Luigi Tarani, doc. 22).
Sebbene nella surriferita concordia all’art. 11 fosse stato stipolato che la macchia cedua di Trentani o Selva dei Cavalieri sarebbe rimasta in proprietà del Principe Borghese per eseguirne il taglio a suo piacere, tuttavia da un documento apparisce, che nell’anno 1820 il Comune abbia stipolato un contratto per il taglio della macchia in vocabolo S.Giovanni e Trentani. Probabilmente a quanto sembra, s’intende di un altro apprezzamento di macchia, sito nella contrada Trentani.
Il cintratto sopraddetto fu approvato dalla Congregazione del B. Governo, ed in quello fu espresso il patto, che la punta che si ricavava dal taglio, “restasse a favore del popolo”, e che fosse espressamente proibito al compratore, di esportarne dalla macchia alcuna benchè minima parte, ecc. (Arch. del B. Governo. Miscell. I, Mentana, doc. 24).
Dallo Stato dei beni rustici, pascoli e macchie della Comunità di Mentana, si rileva, che i due apprezzamenti macchiosi di terreno, vocabolo Trentani, uno dei quali era detto di S.Giovanni, ossia l’Immaginetta, nel quarto stesso di Trentani, fossero ambedue gravati non solo dell’uso civico di pascolo continuo in tutto l’anno, ma che inoltre, quando cadevano a taglio, “la popolazione di Mentana avesse il diritto di raccolgliere la punta della legna, nonché anche la legna secca in qualsiasi tempo dell’anno”. (Arch. del B. Governo. Mentana. Stato dei beni, doc. 35).
Anche nel quarto di Monte Pizzuto, fin dall’anno 1808, fu riconosciuto il diritto di legnare, in seguito ad un monitorio spedito dai Mentanesi contro Giovanni Baronci possessore di quel quarto, come da istrumento in atti Nardi, notaio della Camera Apostolica, 26 Settembre 1807. (Arch. del B. Governo. Mentana. Miscell. II, doc. 27).
Così dalla relazione, fatta dal revisore Pietro Fausto Angelucci nell’anno 1824, risulta, che il quarto di Monte Pizzuto “fosse gravato del diritto di legnare”. (Arch. del B. Governo. Relazione Angelucci, doc. 29).
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(Da pag. 55)
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USO CIVICO DI LEGNARE
ANCHE PER FARE ATTREZZI DA LAVORO
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Nella relazione fatta alla Congregazione del B. Governo nell’anno 1824, del revisore Pietro Angelucci, questi riferendo del territorio di Mentana, premette avanti tutto, che essendo quello posseduto “interamente” dal Principe Borghese, non vi era alcuno in quel paese, che fosse padrone di un fondo libero, “dovendo tutti sopra qualunque prodotto dare annualmente una risposta al proprietario del dominio diretto”.
Fra i diritti popolari nota, che nella macchia Cianfrone, che prima apparteneva al Comune, i Mentanesi “godessero il diritto di tagliare quella quantità di legname, che loro occorreva per costruire oggetti (attrezzi) di agricoltura”, ma soltanto per uso proprio, restando ai medesimi vietato di farne speculazione o commercio, ecc. (Arch. del B. Governo. Relazione Angelucci Pietro Fausto, doc. 29).
Nell’anno 1826 il perito Giansanti dovè redigere una perizia sopra alcuni danni arrecati da Vincenzo Santucci nella macchia Cianfrone.
In quella i cittadini di Mentana avevano il diritto di tagliare il legname occorrente per gli aratri e altri istrumenti campestri.
Sembra, che il Santucci si fosse abusato dell’indicato diritto, poiché aveva tagliato nell’anno 1823 circa 200 olmi. (Arch. del B. Governo. Miscell. I, Relazione Giansanti, doc. 33).
In un allegato alla relazione di Alessandro Ricci perito, redatta il giorno 19 Dicembre 1825, viene detto “che il sig. Vincenzo Santucci, come cittadino di Mentana, ha creduto nella stagione 1822-23 di servirsi, e tagliò difatti detti olmi; ma supponendosi per parte del popolo e Comunità, che eccedesse nella quantità, oltre il suo bisogno, il Visitatore Apostolico sig. Pietro Fausto Angelucci fece rare la numerazione e stima, etc. (Arch. del B. Governo. Mentana, Miscell. I, allegato B, doc. 34).
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(Da pag. 56)
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DIRITTO DI FALCIARE L’ERBA
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Nel libro sesto degli Statuti di Mentana alla rubrica “Della vendita delle case e prati” viene ordinato, che chiunque possedesse una casa a Mentana, dovesse pagare un solido per casa, nel giorno 15 Agosto di ciascun anno, e così per ogni falciata (ossia per una giornata di falciatura) solidi quattro, e per le arnie delle api solido uno. (Statuto, libro sesto, doc. 1).
Nella perizia e stima del tenimento di Mentana, redatta nell’anno 1589 dai periti Fontana, Rocca, Valperga ed Ilarione, che fu compiuta per la divisione del patrimonio Orsini, risulta, che in quell’epoca vi fossero nel tenimento di Mentana “rubbia 125 di prati falciativi”, quali vennero stimati scudi venticinquemila. (Arch. di Stato Roma, Arch. Cam. Castri Numentum Instr. a pag. 418 tergo, doc. 5).
Dal Catasto di Mentana dell’anno 1782, rileviamo, che nel quarto di Valle Giordana, vi siano 43 appezzamenti prativi dal N. d’ordine 1113, a tutto il 1180, tutti gravati d’un annuo canone a contanti, a favore del Principe Borghese.
Negli stessi appezzamenti di terreno, l’erba d’inverno spettava al Principe Borghese, l’erba d’estate poi, era promiscua fra i bestiami della Comunità e quelli del Principe.
In conseguenza si deve concludere che tutti i possessori dei prati fossero “43 possidenti utilisti” (Catasto di Mentana dell’anno 1782, da p. 618, att. la p. 660. Ufficio del Catasto Roma, doc. 10).
Nell’adunanza Consigliare dell’anno 1811, nel giorno 27 di Ottobre, il Maire provvisorio di Mentana, Sante Torrici, riferì al Consiglio Comunale di aver esposto al cav. Gozzani di S.Giorgio, rappresentante del Principe Camillo Borghese, i diversi diritti statutari di Mentana, ma che il colloquio non avesse poi avuto un risultato pratico, in quanto il Gozzani “non mantenne l’appuntamento per un altro congresso” (sic).
Da quell’atto Consigliare stesso risulta che l’esercizio del diritto di falciare, che nello Statuto era stato tassato “a solidi quattro”, invece fino dall’anno 1811, l’amministrazione del Principe Borghese faceva pagare per detto esercizio “baiocchi dodici per ogni falciata”, ossia giornata di lavoro.
E poiché un solido valeva tre quattrini, ed ogni baiocco cinque quattrini, in conseguenza la differenza risultava a quattrini 48 in più, ossiano sedici solidi in più di quanto stabiliva lo Statuto. (Atto Cons. 27 Ottobre 1811).
Nella transazione del 1816, non si fece alcuna parola del diritto di falciare l’erba, ma invece nel verbale del Consiglio, del 23 Giugno dello stesso anno, si era fatta menzione di tutti gli usi civici, ai quali si doveva rinunciare, ma nulla venne detto dell’erba da falce, e soltanto si accennarono i diritti riconosciuti, che dovevano restare in pieno vigore, quale quello di “legnare, del pascolo promiscuo dei bestiami nell’estate, dello spicilegio, e poi si disse “ed altri” a favore di questa popolazione”. (Atto Cons. 23 Giugno 1816).
Esaminati i documenti, sopra i quali abbiamo riferito, dobbiamo concludere, in merito all’uso di falciare l’erba, che ammesso il diritto , che nel giorno 8 Maggio di ciascun anno, avesse principio il pascolo promiscuo del bestiame dei Comunisti, insieme a quello del Principe Borghese, o dal suo affittuario, avveniva certo quello, che succede in varie tenute, che fanno parte del territorio nei Comuni, che cioè i terrazzani spesso ne falciano i luoghi vallivi, non solo nella primavera, ma anche nei mesi di Giugno e Luglio.
Tale uso di falciare l’erba, era stato tassato dallo Statuto con solidi quattro, per ogni giornata di lavoro, e che poi venne elevato a baiocchi dodici, come risulta dall’atto Cons. del 27 Ottobre 1811, che abbiamo esaminato.
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(Da pag. 58)
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DIRITTO DI GHIANDARE, PASCOLO DEI SUINI,
E DELLE CAPRE E PECORE
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Nello Statuto di Mentana, al libro sesto sotto la rubrica “di chi avesse porci paghi il ghiandatico” vien stabilito, che per compenso del pascolo e del godimento della così detta “casca” (ossia delle ghianda guasta), che cade negli ultimi giorni di Ottobre e nei primi di Novembre) e per il pascolo della ghianda e della spiga, si dovessero pagare due solidi, per il 25 Dicembre di ogni anno per ciascun suino.
Nel giorno 29 di Settembre di ciascun’anno si doveva fare la numerazione dei suini esistenti nel territorio. (Statuto di Mentana, lib. VI. Atto Cons. 1814, 27 Marzo).
Nello stesso libro sesto, sotto la rubrica “per chiunque possedesse capre e pecore”. Si ordinava a chiunque avesse capre e pecore, che pascolassero nel territorio di Mentana, che dovesse somministrare, a Carnevale alla Corte, un capretto per ogni 50 capre che possedesse; e così per ogni 50 pecore, che dovesse dare un castrato nella Pasqua, e che fosse lecito di far “pascere i bestiami suddetti” nei consueti luoghi.
Da quest’ultimo capoverso della riferita rubrica statuaria, si rileva evidentemente, che tutte le pecore dei Mentanesi potessero pascere liberamente tutto l’anno nei “pascoli stabiliti”, e che dovevano essere sufficienti al bisogno, altrimenti si dovevano aumentare, come meglio risulta dal documento seguente. (Statuto di Mentana, libro VI).
Nell’atto di divisione tra i fratelli Paolo e Giovanni Orsini, nell’anno 1552, redatto dai periti agrimensori, Cesare Tutoni e Giacomo di Monterotondo, oltre quanto venne stabilito per il pascolo dei buoi aratori, e per l’aumento di quello, se così fosse stato necessario, i fratelli Orsini dichiararono a mezzo dei periti sopradetti, che in futuro se fosse occorso, avrebbero somministrato il pascolo anche per le vacche, e per gli altri “animali minuti” degli abitanti di Castello, e che i fratelli sopradetti “avrebbero dovuto provvedere i pascoli necessari, egualmente con larghezza, e ciascuno di essi spontaneamente nel modo stesso, dovesse somministrare i pascoli sopradetti”. (Arch. Capito. Atti Orig. Massa Antonio Matteo, Vol. 464, pag. 661 t., doc. 2).
Nella consegna per l’affitto dei beni della Comunità di Mentana, dell’anno 1804 nel giorno 14 Giugno, venne consegnato il quarto di Monte Pizzuto di rubbia 37, col pascolo del suddetto e ruspo per le capre, ossia pascolo per le medesime, ed a favore della popolazione. (Arch. del B. Governo. Miscell. II, Mentana, Pos. N. 11, doc. 16).
Il diritto di pascere la ghianda fu anco riconosciuto nell’atto di concordia del 31 Agosto 1816.
Infatti fra le richieste fatte al Principe Borghese, eravi quella di poter far pascere gli animali neri, e raccogliere le “ghiande in tutto il territorio”.
La domanda venne in parte accolta, poiché fu convenuto, che il Principe avrebbe fatto assegnare ai cittadini Mentanesi per i loro animali neri, 500 alberi tra quercie e cerri nelle macchie di Trentani e Selva dei Cavalieri, e non essendovi il detto numero di alberi, si sarebbero fatte conservare le guide delle quercie, per compiere il numero degli alberi mancanti, e nel caso che alcuna pianta fosse perita, si sarebbe surrogata. (Istrom. Atti Serpetti, 31 Agosto 1811, doc. 22).
Non ostante la concordia sopradetta, risulta da una relazione fatta dal revisore della Congregazione dal B. Governo, Luigi Tarani, nell’anno 1829, che la Casa Borghese in quell’anno avesse ottenuto dal Gonfaloniere di Mentana il permesso di tagliare alcune quercie da frutto “sulle quali i terrazzani avevano il diritto di ghiandare”.
Era anche avvenuto nell’anno 1818, quando che cadde il taglio delle macchie Trentani e S.Giovanni, che l’acquirente arbitrariamente atterrò alcune quercie. Ed il Principe Borghese, in seguito a reclamo spedì il suo agrimensore, per riconoscere e riparare il danno, che venne compensato colla sostiutzione di altre quercie lasciate per guide nelle stesse macchie.
Ma quell’assuntore del taglio, anche nell’anno 1828, atterrò altre quercie riservate ai Mentanesi.
Il Gonfaloniere diede formale querela per ciò avanti al Governatore di Palombara (Arch. del B. Governo. Mentana, Miscell. Pos. Prot. Segret. N. 112, doc. 37).
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(Da pag. 60)
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       DIRITTO DI SPIGOLARE
Risulta dal Catasto di Mentana dell’anno 1782, che tutti i seguenti quarti di quel territorio, siano soggetti allo “jus spigandi” a favore dei poveri di quel Comune.
 
Quarto del Carnale, o Carnaro
 
Quarto Della Conca
 
Quarto Fonte Lettiga
 
Quarto Forni
 
Quarto Formelluccio
 
Quarto Mancini
 
Quarto Delle Due Torri (Mancini)
 
Quarto Colle Surgo (Mancini)
 
Quarto Mezzaluna
 
Quarto Monte Palombino
 
Quarto Torricella
 
Quarto Monte dei Porci
 
Quarto S. Lucia
 
Quarto Tor Lupara
 
Quarto Tubaldini
 
Quarto Valle Cavallara
 
Quarto Monte Pizzuto
 
 
 
(Catasto di Mentana, Anno 1782, Ufficio del Catasto Roma, doc. 10)
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L'ISTITUTO STORICO ROMANO
Prof. Giacomo Sercia
Cesare Delupis, estensore